Tutte le colpe del Comune di Serrara Fontana
Dopo la richiesta di oltre 5.5 milioni di euro da parte del Tribunale, andiamo a spulciare nel dettaglio l’articolata sentenza. Nella quale i giudici non hanno dubbi nell’elencare una serie di pesanti e palesi responsabilità da parte dell’ente montano che avrebbe violato i principi della corretta gestione imprenditoriale della controllata non coprendo le perdite accumulate e non approvando i bilanci
Ci sono responsabilità spaventose nel fallimento della società partecipata “La Torre” con atteggiamenti che, a leggere la sentenza firmata dal presidente della sezione del Tribunale di Napoli Leonardo Pica, sarebbero stati addirittura pianificati a tavolino e nient’affatto casuale. Ed al netto delle condotte dei singoli, è giusto ricordare quanto abbia sbagliato la politica e chi all’epoca amministrava il paese, perché spesso dalle nostre parti si è soliti avere la memoria corta. E nel mirino dei giudici finisce proprio il Comune di Serrara Fontana. Ecco ad esempio un passaggio della sentenza, decisamente eloquente: “In particolare, la violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale della controllata si è estrinsecata nella scelta strategica di non procedere più almeno dal 2007 a coprire le perdite accumulate dalla società fino a non approvare più i bilanci dal 2010 che avrebbero palesato lo stato di erosione del capitale sociale (che il CTU ha fatto risalire all’anno 2007 con le necessarie rettifiche dei bilanci), imponendo l’intervento finanziario per salvaguardare la continuità aziendale. E tanto è stato fortemente voluto dal socio unico che in tal modo ha continuato ad assicurare il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani nonchè gli ulteriori servizi pubblici affidati alla partecipata facendo ricadere gli oneri economici sulla fallita, perseguendo pertanto il proprio interesse a discapito della partecipata sempre più onerata di servizi e di debiti, senza nemmeno riconoscere l’aggiornamento delle tariffe del servizio utile a coprire gli ingenti costi e le relative perdite come rilevate dal CTU sin dal 2004, ad appena due anni di distanza dalla costituzione della società. Inoltre, il costante incremento dei servizi affidati alla partecipata non si è accompagnato ad alcun reale strumento di rafforzamento patrimoniale e finanziario della società, invero i compensi offerti si sono rivelati antieconomici, contribuendo allo stato di dissesto societario palesato dalle sistematiche perdite accumulate sintomatiche dell’incapacità dell’ente controllante di garantire l’obiettivo della economicità della gestione. Né tantomeno è sostenibile che la scelta strategica di non mantenere l’obiettivo dell’economicità fosse prerogativa soltanto dell’organo amministrativo della controllata poiché la convergenza delle scelte amministrative palesatasi nelle condotte di mala gestio dell’organo amministrativo non impedite dall’organo sindacale presuppongono un indirizzo di fondo condiviso con il socio unico, che non si allarma nemmeno quando lo stato di decozione della fallita è evidente anche all’opposizione politica in seno al consiglio comunale. Pertanto, l’esercizio abusivo dell’attività di direzione unitaria si è manifestato anche nella scelta di non rimuovere gli organi sociali nonostante gli atti di mala gestio che sono stati vagliati nel presente giudizio. Qualora l’ente comunale socio unico avesse voluto improntare la strategia di eterodirezione nel rispetto di una corretta gestione imprenditoriale era tenuta a rimuovere il management societario della fallita che aveva inanellato una serie di condotte illecite produttive di pesanti conseguenze pregiudizievoli sul patrimonio della fallita per condurla al dissesto. Al contrario, l’opzione di lasciare al comando sin dalla costituzione della società un board amministrativo palesatosi inadeguato milita nel senso di ritenere che le strategie amministrative seppure fallimentari fossero oggetto di indirizzo e condivisione dell’ente comunale partecipante”.
La condotta poco accorta, per usare un eufemismo, del Comune viene esplicata anche in altro passaggio: “Come già evidenziato ad altri fini per corroborare la prova circa la corresponsabilità dell’ente comunale nelle condotte di malagestio dell’organo amministrativo, la decisione di non sanzionare con la revoca dall’incarico l’organo amministrativo che aveva fatto prescrivere un credito verso l’utenza intorno al mezzo milione di euro senza nemmeno provvedere all’emissione delle fatture per la riscossione della posta creditoria in mancanza di atti interruttivi della prescrizione o che non si era attivato nemmeno per recuperare crediti verso l’ente comunale risalenti agli anni 2003-2004 sui quali successivamente è maturato il termine di prescrizione risponde ad una logica non conforme ai criteri di corretta gestione societaria ed imprenditoriale. Non vi è dubbio che l’ente comunale non era tenuto a coprire le perdite sempre più ingenti della partecipata, ma da quando dal 2010 impediva in qualità di socio unico di approvare i progetti di bilancio predisposti dall’organo amministrativo che mostravano lo stato di assoluta antieconomicità del proseguimento dell’attività imprenditoriale della controllata, tale condotta si connotava come di abusiva eterodirezione, dal momento che consentiva la continuazione di una realtà imprenditoriale in stato di dissesto, laddove avrebbe avuto l’obbligo, non volendo procedere alla doverosa capitalizzazione, di far dichiarare almeno l’auto fallimento e così non aggravare il dissesto”.
“L’esercizio abusivo dell’attività di direzione unitaria si è manifestato anche nella scelta di non rimuovere gli organi sociali nonostante gli atti di mala gestio che sono stati vagliati nel presente giudizio
Il comportamento poco ortodosso dell’ente montano viene ulteriormente riportato in un altro passaggio: “Depone nel senso di intendere anche tale condotta come sintomatica di abusiva eterodirezione la stessa forma scelta dall’ente comunale per l’esercizio dello svolgimento di sevizi pubblici in favore della collettività. Se l’ente territoriale decide di ricorrere allo schema del ‘in house providing’ per la gestione dei servizi pubblici ed intende farlo nel rispetto di una corretta e prudente gestione societaria non può sistematicamente lasciare andare deserte le assemblee convocate per l’approvazione di bilanci che riportano il continuo aggravarsi delle perdite. In buona sostanza, la decisione di non approvare bilanci (peraltro clamorosamente artefatti nella parte in cui non riportavano le sanzioni ed interessi della cospicua debitoria fiscale aggravatasi negli anni e non prevedevano fondi di svalutazione per i crediti non riscossi) che comunque riportavano perdite sempre più consistenti si configura come un pesante condizionamento sulla stessa gestione sociale, tenuta a proseguire l’attività nonostante il carattere antieconomico per il volere incontrastato della società dominante e senza alcuna speranza di risanamento aziendale, in difetto del necessario apporto di liquidità”. Poi un altro pesantissimo atto d’accusa: “Non può rispondere ad una logica di corretta gestione societaria ed imprenditoriale che dovrebbe tendere a privilegiare la redditività e valorizzazione delle imprese controllate, la scelta dell’ente comunale controllante che lascia andare deserta l’assemblea del 28.12.2011 convocata per il ripianamento delle perdite dell’anno 2010 e per il conferimento di beni. Soprattutto in considerazione della circostanza che a fronte delle perdite già maturate al 2010 e che avevano ridotto il patrimonio netto negativo ad appena 3000 euro, nell’anno 2011 si registrano ulteriori perdite per l’ammontare di oltre 125 mila euro. La cennata strategia – diretta a tenere in vita per lo svolgimento di servizi pubblici una realtà imprenditoriale perennemente in perdita e che abbisognava soltanto di essere patrimonializzata per evitare l’irreversibile stato di decozione a cui è stata volutamente condannata la società dominata – trova piena conferma nella delibera con la quale il Consiglio Comunale prende atto della messa in liquidazione. Dal verbale della delibera del 27.12.2012 si evince che di fronte al bivio in cui si trovava il socio unico se deliberare lo stato di scioglimento oppure ricapitalizzare come già deliberato in data 22.12.2011 (delibera che veniva frettolosamente revocata e che attestava la piena consapevolezza che l’unico salvagente per una società già in stato di insolvenza non poteva essere che la capitalizzazione, sebbene nella forma sempre piuttosto discutibile del conferimento di beni di proprietà dell’ente comunale), la scelta cadeva sulla messa in liquidazione, nonostante i consiglieri di opposizione avessero proposto un emendamento alla delibera in cui si affermava testualmente l’esigenza di “prendere atto che la società La Torre versa da anni in uno stato di insolvenza ed essendo priva del durc non è nelle condizioni di operare e la situazione impone di depositare al tribunale fallimentare le scritture contabili per la nomina del curatore fallimentare”.