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Tony Gallo: «Un murales per Forio»

Gianluca Castagna | ForioTony da Tonello, il suo vero cognome. Gallo, un omaggio all’attore Vincent Gallo, interprete maudit di tanto cinema indipendente americano. Ma più che guardare oltreoceano, lo street artist padovano, di cui è in corso una personale, “My Stories”, alla Street Art Gallery di Forio, preferisce guardare al di qua dell’Atlantico.
I suoi lavori sono sparsi in tutta la penisola, ma anche in molte città d’Europa. Creature dai contorni indefiniti e quasi evanescenti che indossano pellicce, squame di pesce e becchi di volatili. Immerse in una natura magica e naia, forse specchio del mondo interiore dell’artista.
Gallo ha sempre amato disegnare, ma la passione, salvifica, è esplosa dopo un passato come musicista militante.
Da quel momento, con lo slancio di ogni autodidatta, ha iniziato a sperimentare e non si è più fermato.
Cosa ha dipinto a Forio e perché?
Il murales che ho realizzato sul porto si richiama al tema dell’ambiente, interpretato secondo la mia immaginazione e immerso dentro il mio mondo fantastico. Un uomo e una donna, lui con un acquario bellissimo, lei vestita da pesce. Lui l’ama, ma anziché rinchiuderla nel suo acquario, la lascia libera nella natura, perché possa essere amata da tutti. Dovremmo liberarci dalla mania del possesso ed essere più generosi, specie con il mondo animale. Anche un mobile, prima di essere tale, è stato un albero. Forse era meglio quell’albero restasse lì dov’era.
Quanto tempo ha impiegato per realizzarlo?
Meno di una giornata. Sono molto veloce, grazie alla concentrazione. Mi immergo completamente nel mio universo, come quando componevo musica. Il mondo esterno sparisce.
La tecnica delle apparenze ha prevalso sulla naturalità. Cosa rappresentano gli animali che lei evoca nelle sue creazioni e nei quali l’uomo spesso si mimetizza? Alleati che ci aiutano a recuperare la capacità di comunicare con questa dimensione?
Non c’è differenza tra uomo e animale. Spero che la sensibilità verso questi esseri possa aumentare. Ho due gatti, che sono un po’ i miei bambini, sono stati loro che mi hanno aiutato ad avvicinarmi a questo mondo e a conoscere la mia persona, la mia sensibilità, il mio universo interiore. Vesto i miei soggetti da animale forse perché non posso farlo io. O forse perché l’uomo vuole attirare l’attenzione degli animali. Dai gatti sono passato ai volatili. Il becco, in particolare, nasce in occasione di una mostra “Pensavo di poter volare”. L’idea è proprio quella, sentirsi liberi.
Che ruolo gioca il colore nella sua immaginazione ed espressione artistica? Quali tecniche predilige?
Nel 99% delle mie opere utilizzo lo spray, ma anche acrilico, pennelli e rulli. La tecnica che viene utilizzata per i murales l’ho riportata sulla tela e nelle opere che espongo in galleria. I colori sono arrivati dopo un periodo molto buio e rappresentano una rinascita, soprattutto del mio mondo interiore.
Ha iniziato come musicista in una band. Cosa le ha dato la pittura che la musica non riusciva a dare?
Nulla di più. Ho amato molto fare musica, dopo un lungo percorso in cui abbiamo calcato i palcoscenici della scena indipendente italiana, ci siamo sciolti. Io ero il compositore e mi è mancata subito quella parte creativa. Così ho deciso di riprendere la mia prima passione: l’arte.
Di cosa si nutre il suo immaginario interiore?
Disegno molto istintivamente. Solo a metà dell’opera ne capisco il significato o cosa sto facendo. Non parto mai con un progetto preciso, l’approccio è sempre selvaggio. Penso nel subconscio di avvicinarmi molto a quel mondo infantile che abbiamo lasciato in un cassetto o che abbiamo in qualche modo abbandonato. E’ come i libri di pop up, apri le pagine e sbuca fuori un mondo intero. Come la marionetta, sai che dietro c’è una mano ma non t’importa. E’ la magia quella che conta, mi manca la magia dell’infanzia, l’arte è modo per ricrearla.
Qual è il luogo più incredibile dove hai lavorato?
A Londra è stato favoloso, lì la gente è molto sensibile. Hai feedback incredibili, anche immediati. Adesso sto lavorando parecchio in Svizzera, dove c’è un certo mercato e interesse verso le mie creazioni.
E’ ancora importante la componente rapinosa, clandestina, della street art o fa parte di una mitologia tramontata?
Ci sono scuole di pensiero diverse. Io ho iniziato con le tele, perché non avevo il tempo materiale per andare a lavorare all’esterno. A casa mia provavo e riprovavo. Altri artisti, più maturi e importanti di me, hanno visto le mie cose e mi hanno subito spinto a dipingere sui muri. Mi si è aperto un mondo e non mi sono più fermato. Oggi è sempre più facile trovare degli spazi disponibili, ma la componente clandestina sopravvive. E ci piace. Naturalmente bisogna farlo con intelligenza: non si intaccano spazi privati o con un valore intrinseco. Penso, ad esempio, ai musei o ai monumenti.
Ti è mai successo di ricevere una reazione negativa a un murales?
Certo. Ho lavorato per il Comune di Padova su un muro tutto scarabocchiato, rovinato. Alcuni cittadini, forse poco sensibili all’arte, non hanno nascosto che lo preferivano in quello stato degradato.
A proposito di spazi urbani, è meglio preservare o lasciare che l’effimero abbia la meglio?
L’effimero fa parte del gioco. E’ normale che qualcun altro possa arrivare e dipingere su un tuo lavoro. In una città come Berlino, ad esempio, su un murales che hai dipinto può intervenire qualcun altro anche dopo poche ore. Gli spazi cominciano a mancare, ce li contendiamo.
Qual è l’elemento essenziale per giudicare la qualità di un intervento su uno spazio pubblico?
L’arte è sempre soggettiva, non esistono schemi precisi.
La cosa più bella della street art?
La libertà.

 

 

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