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“Tra Thalassa e Nostoi”: com’è profondo il mare, quanto antico è il suo mito

Gianluca Castagna | Ischia – Il senso della vita nella sua calma e nel suo impeto, nell’inquietudine e nell’instabilità, nella libertà inseguita a lungo prima che l’ultima catena si sciolga dalla terra o nel desiderio di attraversarlo senza meta, quando neppure il tempo conosce altro riferimento se non quello offerto dalla luce e dal buio. Rotti gli ormeggi, l’orizzonte dell’esistenza si apre e si dilata.
Nasciamo dal mare e nel mare riconosciamo sempre un elemento familiare. Anche quando, ricadendo su se stesso, fa sibilare spaventosamente il silenzio. Serbatoio di storie, relazioni, conoscenze, identità. Che poi è una delle questioni centrali del nostro tempo: identità del mondo occidentale rispetto a tutti gli altri mondi, in particolare a quelli che – da Oriente o dall’Africa – guardano al Mediterraneo.
Nella definizione identitaria (o nella sua ridefinizione) un ruolo fondamentale viene giocato dalla ricerca e dalla (ri)costruzione del passato. In termini storici, culturali e archeologici. Chi siamo e da dove veniamo?

Navigazione, approdi, rotte marittime, porti, contatti, scambi, commerci. Quindi ricchezza.
Fin dai primordi dell’archeologia preistorica lo studio di isole minori o arcipelaghi ha costituito uno degli obiettivi prioritari per la ricostruzione del popolamento del Mediterraneo. Il mare è stato il collante per l’interazione tra le genti, il ponte per l’incontro con altre civiltà, la superficie di trasporto per nuovi insediamenti e nuove narrazioni. Anche quelle che ci riguardano molto da vicino e che sono state rievocate sabato sera dall’archeologa Mariangela Catuogno in “Tra Thalassa e Nostoi: storie di uomini di mare“, primo di una serie di incontri organizzati nella Sala Multimediale “Navigando verso Aenaria”, a Ischia Ponte, dall’Associazione “Archeologica”.
Un lungo, appassionante, irresistibile viaggio nel tempo in cui sono fatali reperti della cultura materiale a raccontarci queste storie e, al tempo stesso, diventare coordinate indispensabili per affrontare quello spazio tra cielo e terra, senza confine (di nessun tipo), che è il mare.

Molteplici gli indizi rinvenuti che ci suggeriscono come l’isola d’Ischia abbia avuto un ruolo significativo nei traffici commerciali già nella sua prima fase Neolitica fino a tutta l’Età del Ferro.
Gli studi di Giorgio Buchner, ricercatore cui tanto deve la cultura occidentale, lasciano pensare che la prima fase di frequentazione e di occupazione delle isole sia strettamente connessa con il graduale sviluppo, e poi l’affermazione, di una fitta rete di scambi via mare. Eolie, Pontine, Flegree. Giovanissimo, ma già appassionato senza via di scampo dall’archeologia nel senso più ampio del termine, Buchner le visita tutte e, dove può, scava.
Insulae minores? Neanche per sogno.
Terminali, piuttosto, delle interconnessioni transmarine sulla lunga distanza. Fonti di materia prima o centri nevralgici di smistamento. L’ossidiana, vetro vulcanico molto ricercato nell’antichità per la fabbricazione di strumenti taglienti, si cava a Palmarola, si lavora a Ponza e, attraverso Ischia, raggiunge la terraferma. Traffici neolitici dell’ossidiana toccano praticamente tutti le stazioni insulari tirreniche, coinvolte direttamente o indirettamente in questo grande network commerciale/culturale sul mare. Non solo formidabile riserva alimentare, dunque, ma elemento-chiave per la costruzione di legami, quindi della coscienza di una unità culturale mediterranea.
Tutto ciò fu intuito (e debitamente sfruttato) dalla fiorente marineria micenea che dal XVII al XIII secolo a. C. favorisce incontri e scambi tra culture. I navigatori micenei consolidano le vie marittime sulla lunga distanza, giungono in luoghi che si tramandano con nomi evocativi, affrontando il mare con le sue ninfe seducenti e gli implacabili mostri, ma soprattutto – ricorda la Catuogno – «confermano l’esistenza di una rete commerciale in grado di far circolare tutta una serie di beni di lusso (vasi di pregio in primis) da Oriente verso Occidente».

Il mare, dunque, come corsia privilegiata per la circolazione di beni, idee, professionalità, tradizioni identitarie.
E’ l’alba della Magna Grecia, l’arrivo della grecità attraverso Dioniso, il dio del vino, come mostrato nella coppa di Exechias. La cultura pithecusana partecipa da protagonista alla diffusione della grecità in Occidente, un mondo che irrompe nella mentalità delle genti italiche con la forza della filosofia razionale, la democrazia, la scienza, l’amore per la bellezza, l’edonismo e la ribellione, il soffio vitale di una curiosità trasgressiva, il piacere di un umorismo pungente. E poi il rapporto simbiotico con il mare, mondo allettante e spaventoso nel quale i Greci nuotano e navigano sulle loro navi veloci. Elemento inscindibile dalla loro identità intellettuale e culturale.
Il passo successivo è il simposio, dove gli uomini prendono decisioni politiche, intonano canti, danzano e recitano poesie. L’aristocrazia si autorappresenta e autocelebra attraverso il rito. Il vaso principe è il cratere, utilizzato per mescolare nei banchetti il vino con l’acqua.
Due reperti capitali per altre infinite storie: il cratere Bootes e il cratere del Naufragio.
«Due facce di un’unica medaglia», osserva la Catuogno. «Uno ci racconta la vita quotidiana di agricoltori e marinai che seguono le leggi e le rotte delle stelle attraverso la lettura degli astri; l’altro, la condizione dell’uomo dopo la morte, una delle poche scene di naufragio raffigurate nel mondo antico». Sul primo, scoperto da Don Pietro Monti (altro protagonista assoluto dell’archeologia ischitana) nell’area di scavo sotto il complesso sacro di Santa Restituta (oggi ancora colpevolmente chiusa, malgrado i periodici refrein di circostanza), il graffito di stelle unite da un nodo giunzione e una Beta retrograda. La decorazione pittorica e la composizione astrale sono due figure che diventano un discorso storico, come una sorta di scrittura. L’uso e il commercio dei vasi nautici, preparati da esperti astro-mitologisti presso le emporie del Mediterraneo; l’influenza orientale nell’arte ceramica di Pithekoussai; i fertili riferimenti letterari (a Omero), astronomici e mitologici che arricchiscono tutta la cultura pithecusana. La giornalista Isabella Marino (moderatrice dell’incontro) ricorda quando Don Pietro la chiamò per raccontarle personalmente la storia di questi «uomini capaci di guardare orizzonti più ampi che abbracciano tutto il bacino del Mediterraneo, il mercato globale e globalizzato del tempo. Attraverso una serie di ricerche e di studi, era riuscito a collocare questo tassello in un mosaico che comprendeva tutta la cultura del mare.»

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Il cratere del naufragio (risalente a fine VIII sec. a. C. e rinvenuto nella necropoli di San Montano), conferma la qualità dell’artigianato pithecusano ed è noto per la sequenza horror che riproduce. La barca travolta dai flutti, i cadaveri dei naviganti in acqua, un grosso pesce che divora la testa di un marinaio. Perché questa scena? Per alcuni il riferimento a Omero, e al ritorno degli eroi dalla guerra di Troia (l’epopea dei “Nostoi”), è evidente; per altri (Buchner, ad esempio) è il tentativo di esorcizzare la morte in mare. «Non dimentichiamo che, per i Greci, morire in mare equivaleva alla dannazione eterna», sottolinea Mariangela Catuogno.
L’arte sconfigge la morte non perché sia in grado di fermarla o rimandarla (quello spetta alla scienza), né perché la neghi in linea di principio (il gioco delle religioni): il racconto che l’artista/artigiano pithecusano ha fissato sul vaso crea uno spazio magico in cui lo sguardo resta vivo mentre il disastro si compie, così come la produzione artistica genera una comunità che riafferma il senso mentre il caos irrompe nella realtà. Esorcizziamo la fine della vita anche quando non ci impedisce di continuare a produrre il bello. In quella immagine straziante di corpi divorati dai pesci o risucchiati nel baratro amaro degli abissi, la sfida del linguaggio alla morte, all’orrore del vuoto, alla perdita di senso.

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Sono ancora tanti i riferimenti della cultura materiale agli uomini di mare che inscrivono gli insediamenti isolani nel quadro dei rapporti più antichi tra mondo egeo, popolazioni locali e comunità del Mediterraneo. La documentazione, in questo senso, è ampia e straordinaria. Ami, pesi e oggetti da pesca deposti nella tomba del defunto, strumenti marinari (forse frutto della pirateria) rinvenuti nell’insediamento (solo?) agricolo di Punta Chiarito, la “grigia ampuritana” iberica e i sombreros de copa ritrovati a Monte di Vico. E ancora i preziosi lingotti di piombo della romana Aenaria, una piccola Atlantide nelle acque della baia di Cartaromana.
Che ruolo svolge Aenaria all’interno del comprensorio flegreo dominato da Puteoli, il porto di Roma? Le campagne di scavo sottomarino ci aiuteranno a svelare i segreti di una comunità ancora una volta protesa verso il mare. Verso infinite opportunità e feconde convenienze.
«Il mare della baia di Cartaromana custodisce ricchezze ambientali e archeologiche» sottolinea Maria Lauro, presidente di “Archeologica”, associazione onlus in partenariato dal 2011 con Marina di Sant’Anna e Ischia Barche per la valorizzazione e il rilancio del patrimonio archeologico sommerso. «Vorremmo presto mostrarle al pubblico nell’erigendo Museo di Aenaria. Allestito, ma non ancora aperto. Solo tanti buoni propositi, per ora. Ischia ci aiuti, sia meno lenta del solito.»

Enzo Ferrandino: «Aenaria formidabile attrattore,
impegniamoci a farla conoscere meglio»

 Un suggestivo viaggio nel tempo che, come tutti i viaggi, non consente fughe totali dal presente.
«Il sito archeologico di Aenaria rappresenta, per l’intera isola e non solo per il Comune di Ischia, un grande tesoro» ha dichiarato il sindaco Enzo Ferrandino, «perché si rafforza questa immagine della nostra isola come crocevia di diverse civiltà e culture. Un tesoro dalle ampie potenzialità anche da un punto di vista turistico. Ischia si differenzia da tante località balneari proprio perché possiede questo patrimonio archeologico unico al mondo. Un formidabile attrattore verso chi ama la conoscenza, la storia, la cultura. Il nostro compito, da amministratori, è da un lato rimuovere tutti gli ostacoli di ordine burocratico che possano rallentare l’attività di riscoperta e fruizione di questo straordinario mondo sommerso; dall’altro, studiare i modi più appropriati per divulgare questo patrimonio di conoscenze custodito tra la baia di Cartaromana e il Castello Aragonese. Nel recente passato questa lacuna divulgativa ha rappresentato un grave neo per la comunità, la sfida è quella di impegnarci al massimo per far conoscere al mondo le peculiarità che ci appartengono, e tra queste il sito archeologico di Aenaria».
Il tempo che viviamo condiziona le nostre ricerche, proponendoci temi che sono il riflesso delle nostre attuali preoccupazioni. Il mare, dimensione collettiva e identitaria tra i popoli, oggi è quasi una barriera naturale per rimandare l’incontro con l’altro.
«Vero, ma è anche elemento di forte connessione, magari a fasi alterne», osserva Ferrandino. «L’isolamento, come dimostra la storia della nostra isola, è stato molto relativo. In questa fase dobbiamo sforzarci di più per coglierne l’opportunità di grande spazio di comunicazione. Come farlo? Attraverso la conoscenza reciproca, con l’impegno di mettere da parte i motivi di distinzione e contrapposizione e cercare invece di rafforzare i punti in comune».

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