Ricorso temerario, la Cassazione condanna un ischitano
Un cittadino isolano dovrà versare al Comune di Ischia una somma equivalente alle spese di lite per aver proposto un’impugnazione infondata, agendo con “mala fede o colpa grave”
Pugno di ferro della Corte di Cassazione nei confronti dei ricorsi “azzardati”. L’ordinanza n.24701/2020 della Terza sezione civile della Suprema Corte ha infatti respinto il ricorso proposto dal signor Mario Impagliazzo contro il Comune di Ischia, quest’ultimo rappresentato e difeso dall’avvocato Francesco Cellammare, tacciando di “colpa grave” o addirittura di “malafede” il ricorrente, e condannandolo a pagare una somma equivalente alle spese processuali a vantaggio dell’ente di via Iasolino. Ma andiamo con ordine.
Il Comune aveva emesso due ingiunzioni contro il signor Impagliazzo per omesso versamento dell’Ici (imposta comunale sugli immobili) per circa 19mila euro, e su tali basi iniziò l’esecuzione forzata pignorando i crediti che il cittadino vantava verso una S.r.l., cosa che indusse Impagliazzo a proporre opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi. Il giudice dell’esecuzione nella fase sommaria ordinò la sospensione dell’esecuzione, ma il Comune propose reclamo davanti al Tribunale di Benevento in composizione collegiale, che accolse il reclamo e revocò la sospensione. Poi si concluse la fase di merito dell’opposizione esecutiva e il Tribunale di Benevento rigettò l’opposizione. Successivamente, la Corte d’Appello di Napoli rigettò il gravame proposto dal signor Impagliazzo. Durante la definizione del giudizio d’appello, il Comune di Ischia riassunse il processo esecutivo: all’esito dell’udienza, il giudice con apposita ordinanza assegnò all’amministrazione la somma di euro 19.765,20.
Ci auguriamo che il lettore sia riuscito a districarsi tra le varie fasi processuali finora descritte, perché è qui che avviene uno degli snodi che poi costituiranno la base della pronuncia della Cassazione. Infatti il signor Impagliazzo contro l’ordinanza di assegnazione propose opposizione agli atti esecutivi, che venne respinta con sentenza dal Tribunale di Benevento. La decisione venne infine impugnata per cassazione con un ricorso fondato su due motivi, a cui il Comune di Ischia ha resistito con controricorso.
La Corte di Cassazione ha ritenuto “inammissibile” il primo motivo (violazione di legge e quello di nullità processuale). In primo luogo perché solleva “questioni nuove”. Infatti, nessuna delle censure risulta proposta con l’atto di opposizione agli atti esecutivi introduttivo del giudizio davanti alla Corte. In quell’atto, il signor Impagliazzo sostenne solo l’estinzione del processo, l’inammissibilità della riassunzione del giudizio sospeso e l’incompetenza del giudice che aveva pronunciato l’ordinanza di assegnazione. Inoltre, la Corte ritiene inammissibile il motivo perché si era già formato il giudicato (quindi un atto inappellabile) sulla possibilità per il Comune di Ischia di ricorrere all’ingiunzione fiscale. Infatti, come aveva dedotto l’ente, proprio nelle more del giudizio per Cassazione era passata in giudicato la sentenza del Tribunale di Benevento che aveva rigettato la prima opposizione proposta.
Tuttavia è il secondo motivo a divenire significativo, in quanto ha “scatenato” la risposta della Cassazione accennata in apertura. Con tale motivo il ricorrente sosteneva che la sentenza impugnata avrebbe violato gli articoli 38 e 669 terdecies cpc, deducendo che il Tribunale di Benevento avrebbe dovuto rilevare la nullità dell’assegnazione, in quanto pronunciata da un giudice “incompetente”. Secondo la tesi prospettata dal ricorrente, tale ordinanza avrebbe dovuto essere pronunciata dal Tribunale in composizione collegiale, essendo stato quest’ultimo a disporre la revoca dell’ordinanza sospensiva del processo esecutivo.
RICORSO “TEMERARIO E INFONDATO”
E qui i giudici della Terza sezione civile usano la linea dura, affermando la temerarietà, oltre che l’infondatezza del motivo. «Il ricorrente – scrivono i magistrati – invoca infatti una regola di competenza totalmente sconosciuta al codice, mai affermata dalla giurisprudenza, destituita di qualsiasi fondamento». Il provvedimento continua spiegando che «l’ordinanza di assegnazione delle somme pignorate è atto del giudice dell’esecuzione, ed il giudice che dirige l’esecuzione è sempre il Tribunale in composizione monocratica. La circostanza che il Collegio possa essere investito in via incidentale dal reclamo avverso i provvedimenti del giudice dell’esecuzione non riverbera alcun riflesso sulle competenze di quest’ultimo». La Suprema Corte specifica che il giudizio è iniziato in primo grado nel 2013, ed il ricorso per cassazione è stato proposto nel 2017, dunque rendendo possibile l’applicazione della norma secondo cui “quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articoli 91 cpc, il giudice anche d’ufficio può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte di una somma equitativamente determinata”.
TESI “GIURIDICHE TANTO FANTASIOSE QUANTO AZZARDATE”
La Corte ha ritenuto che il ricorrente nel caso in questione abbia effettivamente agito, quanto meno, con “colpa grave”. Agire con mala fede o colpa grave vuol dire infatti – secondo la Cassazione – azionare la propria pretesa o resistere a quella avversa con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione, oppure senza aver adoperato la normale diligenza circa l’ammissibilità o la fondatezza della propria posizione. E nel caso in questione il ricorrente ha proposto censure nuove, riproposto censure che, oltre che nuove, investivano questioni coperte da una sentenza definitiva, e ha sostenuto tesi “giuridiche tanto fantasiose quanto azzardate”. La Corte è perentoria: «Tutte e tre le ragioni di inammissibilità appena elencate sono evidenti; derivano da princìpi giuridici pacifici; non consentivano alcuna incertezza sulla loro effettiva sussistenza». La conclusione è inesorabile: secondo i giudici «delle due l’una: o il ricorrente (e per lui il suo difensore, del cui operato ovviamente il cliente deve rispondere nei confronti della controparte, ex art. 2049 cc) ignorava le suddette norme, ed allora ha agito con colpa grave, trattandosi di ignoranza inescusabile; oppure le conosceva, ed allora ha agito addirittura con mala fede, proponendo una impugnazione che ben sapeva essere destinata ad una pronuncia di inammissibilità». La Corte nomofilattica ha quindi concluso deducendo che il ricorrente “ha dunque tenuto un contegno processuale connotato quanto meno da colpa grave”, stabilendo la condanna d’ufficio al pagamento a favore del Comune, oltre alle spese di lite pari a 2300 euro, di una ulteriore somma equivalente a titolo di risarcimento del danno.
Era ora che la Cassazione iniziasse a punire chi appesantisce la Corte con cause di lana caprina. Ma piu’ della parte andrebbe punito il legale che le propone perche’ e’ lui che convince il cliente traendone comunque beneficio economico.