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Olocausto e dramma delle leggi razziali Tullio Foà incontra gli studenti del “C. Mennella”

La discriminazione, la persecuzione, il grande sacrificio dei napoletani che – da soli – riuscirono a liberare la città dagli invasori. Ma anche l’amarezza di un antisemitismo tornato a inquietare la società civile. Nel plesso di via Mazzella le classi quinte ascoltano la testimonianza di uno degli esponenti di quanto rimane della comunità ebraica di Napoli

A 86 anni continua a raccontare la sua storia ai giovani studenti delle scuole. Soprattutto quelle campane. Perché Tullio Foà non è solo uno degli ultimi esponenti della comunità ebraica di Napoli. E’ anche il testimone diretto di uno periodi più oscuri della storia dell’umanità e della capacità di reazione del popolo napoletano che, negli interstizi dell’orrore, riuscì a conservare il suo orgoglio e la sua umanità. A prezzo di enormi sacrifici.

Con la visita di Tullio Foà nella sede di Ischia dell’Istituto di Istruzione Superiore “Cristofaro Mennella”, si chiude un ciclo di iniziative che ha visto tutta la scuola isolana, di ogni ordine e grado, impegnata in prima linea per ricordare l’Olocausto, la persecuzione e la distruzione sistematica degli ebrei ad opera del regime nazifascista.

Nell’Istituto diretto da Giuseppina Di Guida le occasioni di incontro sono state molteplici e non confinate al Giorno della Memoria. Una bella mostra, “Binario 21” (dal luogo tristemente noto della Stazione di Milano da cui partirono, tra il 1943 e il 1945, i treni pieni di deportati diretti ai campi di sterminio), allestita nel grande atrio della sede di via Michele Mazzella, ha illustrato con testi, immagini e scenografie, l’atroce insensatezza di esecuzioni sommarie, omicidi paradossali, quadri agghiaccianti, nei quali pure l’occhio lucido e sanguinante del cielo perde il proprio sguardo dentro quel girone infernale (storico, politico, ideologico) dove sono finiti milioni di ebrei e cittadini europei. Un abisso senza rete e senza ancore di salvataggio.

Eppure c’è chi da quell’orrore è riuscito a sopravvivere. Chi, come Tullio Foà, non ha conosciuto l’oppressione dei lager, ma quella della discriminazione e della persecuzione sì. E ancora ringrazia d’essere vivo e libero, per testimoniare nelle scuole, tra i giovani («è questa la mia sola vendetta»), un’infanzia di paura e di inaccettabile discriminazione. Nel 1938, a soli 5 anni, gli viene vietato di andare alle elementari dopo l’approvazione delle leggi razziali. «A tutti i ragazzi e bambini di religione ebraica fu vietato di andare a scuola, dalle elementari all’Università», ricorda. «Tutti i docenti ebrei furono licenziati in tronco, e così accademici, avvocati, medici, tutti i professionisti persero il proprio lavoro. Compreso mio padre, costretto a fuggire in Africa, e mio fratello maggiore, emigrato negli Usa, dove ancora vive. Dopo un po’ di tempo, venne concessa la possibilità di formare una classe di almeno 10 ragazzi ebrei. Un piccolo passo verso la libertà», ha ricordato Foà, che fu il decimo ragazzino di quella classe formatasi presso la scuola Vanvitelli di Napoli, sul quartiere collinare del Vomero. «Sette maschi e tre femmine. Entravamo da un cancello secondario, un quarto d’ora prima degli altri, e uscivamo un quarto d’ora dopo gli altri, sempre dallo stesso cancello secondario. Potevamo andare al bagno solo dopo che tutti i ragazzi “normali” erano tornati in classe; in palestra, però, non eravamo ammessi, per cui facevamo ginnastica fra i banchi».

«Il giorno più bello della mia vita» ha continuato su quegli orribili anni «è stato quello in cui non sono più entrato dall’ingresso secondario, ma da quello principale, a testa alta. Un’emozione così intensa, da sentirmi frastornato: avevo capito di avere recuperato la mia libertà e ancor più la mia dignità, che nessuno era riuscito a distruggere.»

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Prima di allora, però, l’inferno della persecuzione. E il timore continuo, incessante, di finire sui treni per Auschwitz. «Secondo il progetto originario, le deportazioni dovevano partire da Napoli. “Popolo di insolenti e strafottenti”, dicevano i tedeschi.Tutto era pronto. I carri bestiame piombati e ispezionati con cura pronti a partire dalla stazione. Il Comandante Kohl aveva stilato l’elenco degli ebrei da rastrellare. L’operazione si chiamava “Samstagsschlag”, ossia “il colpo a sorpresa del sabato”. Gli ebrei andavano catturati nel loro giorno santo, quello di riposo, quando erano radunati in preghiera.» «La nostra famiglia – ha proseguito Foà davanti alle classi quinte del “Cristofaro Mennella” – ebbe la fortuna di conoscere un dirigente del commissariato tollerante e un coraggioso amico di famiglia. Il commissario del Vomero aveva mandato a chiamare mia madre. Poiché le leggi antiebraiche si stavano inasprendo, ci suggerì di trovare qualcuno di religione cattolica che si intestasse affitto e utenze. Così facemmo. Un amico di famiglia, per il quale la mia gratitudine sarà perpetua, si assunse questa grave responsabilità. Riuscimmo per miracolo a salvarci.»

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Nel frattempo, la città ritrova l’orgoglio e il coraggio di ribellarsi all’invasore. Così, l’operazione a sorpresa del sabato si trasformò in una sorpresa per i nazisti, disorientati dalla furia popolare e dall’eroismo dei napoletani. Le Quattro Giornate. Uomini, donne, ragazzi, ragazze, scugnizzi e scugnizze «che si dovrebbero ricordare più spesso. Gennarino Capuozzo, un ragazzo di 13 anni, imbracciò il fucile sul ponte della Sanità contro i tedeschi e fu finito da una raffica di mitragliatrici. Non solo lui. Ci furono delle scugnizze: Giuseppina Mastroianni, 14 anni, Assunta Giordano e Rosa Severino, 15 anni, Eva Vittorio, 16 anni, Speranza Turboni di Brusciano, 18 anni. Adolescenti come voi».

Le deportazioni partirono perciò da Roma e furono pesantissime. L’orrore gelido dei numeri: «In tutt’Italia – ha ricordato Foà – furono prelevati 8.625 persone di religione ebraica; solo 1017 sopravvissero. La cosa più grave di Roma fu la deportazione dei bambini: 221. Nessuno di loro è tornato. Il più piccolo era appena nato; i genitori non avevano fatto in tempo a dargli un nome, per cui ne conosciamo solo il cognome: Di Veroli. E poi Giovanni Di Cassa, di 18 giorni, Fatima di Tivoli, 18 giorni. La più grande, Rina Di Consiglio, aveva 10 anni.»

Un’amarezza che, pur affievolita dal tempo e da condizioni storico-politiche fortunatamente mutate, permane tuttora, se è vero che della comunità ebraica di Napoli sono rimaste solo 160 persone. «E in Sinagoga ci ritroviamo in 20, scortati da due militari. Perché l’antisemitismo ancora resiste, strisciante, nella società». L’appello è proprio rivolto alle scuole affinché educhino e informino i ragazzi a “diventare esseri umani”. A non dimenticare e rispettare il valore della memoria. L’incontro, organizzato dai docenti Sara Ingino, Annamaria Di Giovanni, Piera Scotto e Paola Milone, si è concluso con canti della tradizione ebraica e con un monologo “Il viaggio”, scritto da Giuseppe Magaldi (ex alunno del “Mennella”) e interpretato da Pierpaolo Mandl.

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