Non paga gli alimenti, condanna confermata
La Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso presentato da Antonello D’Abundo confermando la condanna a 8 mesi di reclusione emessa in primo grado e poi in Appello. La vicenda giudiziaria ha preso il via dalle denunce della ex consorte dell’imprenditore ischitano, Renee Arcucci, assistita dall’avvocato Michelangelo Morgera
A lungo non ha versato gli alimenti alla ex moglie per il mantenimento dei figli minori, un’omissione che lo ha portato a finire nelle maglie della giustizia e che adesso vede scattare un ordine di carcerazione nei suoi confronti. E’ questo l’epilogo giudiziario della vicenda che vede protagonista l’imprenditore ischitano Antonello D’Abundo: la Suprema Corte di Cassazione ha infatti ritenuto inammissibile il ricorso presentato dal suo legale di fiducia Gianluca Maria Migliaccio confermando la condanna a 8 mesi di reclusione che peraltro l’imputato si era visto appioppare sia in primo grado che in sede di Appello. Per la cronaca la Cassazione ha anche condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali quantificate in euro 3.000. Per ricostruire questa vicenda processuale basta rifarsi alla sentenza di primo grado, visto che di fatto dinamiche e responsabilità sono state accertate anche nei successivi gradi di giudizio. D’Abundo, chiamato in giudizio a seguito della denuncia della ex consorte Renee Arcucci – assistita dall’avvocato Michelangelo Morgera – era accusato del delitto previsto e punito dall’articolo 570 del codice penale perché disinteressandosi dei figli minori nati dal matrimonio proprio con la Arcucci non aveva mai versato gli alimenti sia prima che dopo la separazione datata 2015.
Nella predetta sentenza si leggeva tra l’altro: “Nel merito, all’esito dell’istruttoria dibattimentale è stata acquisita la prova della colpevolezza dell’imputato in ordine al solo reato ascrittogli sub b). Invero nel corso dell’udienza del 25/11/2020, con il consenso delle parti, sono state acquisite anche nel loro contenuto, ai sensi ed agli effetti dell’art. 493 comma 3 c.p.p., le querele presentate dalla persona offesa Arcucci Renè, costituitasi poi parte civile, che è stata comunque escussa in qualità di testimone. Ora, la Arcucci ha dichiarato che il marito D’Abundo Antonello, anche a seguito della separazione consensuale del 2015, non versò in suo favore l’assegno dovuto per il mantenimento dei figli minori, se non per i primi tre mesi. Per l’appunto, dall’accordo di separazione raggiunto tra i coniugi e poi omologato dal Tribunale di Napoli con decreto del 12/3/2015, accordo allegato al fascicolo del dibattimento, risulta che era stato stabilito a carico del D’Abundo un assegno di mantenimento per i due figli minori, afidati in via condivisa ma collocati in via preferenziale presso la madre, nella misura di complesivi curo 500… Nel contesto di tale sentenza il Tribunale di Napoli ha evidenziato che il D’Abundo, pur asserendo di avere una condizione economica precaria, aveva sempre concluso perché fosse confermato l’assegno di mantenimento di euro 500 previsto in sede di separazione, salvo chiedere una riduzione ad euro 300 mensili in sede di atti difensivi finali ex art. 190 c.p.p”. Poi veniva ancora rimarcato: “Il padre, che fa mancare i mezzi di sussistenza ai figh, risponde del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, se non dimostra in maniera specifica di essere assolutamente impossibilitato, a causa di una situazione di persistente, oggettiva, incolpevole indisponibilità di introiti, ad adempiere alla sua obbligazione. Infatti la dimostrazione di una mera flessione degli introiti economici o la generica allegazione di difficoltà non escludono il reato de quo. Tale prova non è stata fornita, per cui il D’Abundo va dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 570 c.p. commesso in danno dei figli minori”.
Secondo quanto ricostruito i vari livelli processuali, l’uomo non avrebbe versato l’assegno di mantenimento per i figli sia nella fase che ha portato alla separazione che negli anni successivi, venendo meno ai suoi obblighi
Nello scorso mese di gennaio il Tribunale per i Minorenni di Napoli aveva emesso un decreto con il quale revocava la potestà genitoriale al D’Abundo sempre per non aver provveduto al sostentamento dei figli minori, nella circostanza il pubblico ministero Ugo Miraglia del Giudice e il curatore speciale difensore dei minori avvocato Gloria Costanza D’Avino avevano concluso per la declaratoria di decadenza del ruolo paterno. Anche la ricorrente Renee Arcucci nella circostanza esponeva che il padre si era completamente disinteressato sia moralmente che materialmente dei figli, come dimostrato dalla inottemperanza alle disposizioni impartite dal Tribunale di Napoli in sede di divorzio per la disciplina del regime di affidamento condiviso della prole e poi confermato dalla sentenza emessa dal giudice monocratico di Ischia il 19 marzo 2021 di condanna a otto mesi di reclusione oltre al risarcimento del danno non patrimoniale per il resto di violazione degli obblighi economici di mantenimento dei figli minori. Costituitosi in cancelleria nell’ottobre 2022, Antonello D’Abundo contestava la sussistenza dei presupposti di legge della domanda di decadenza spiegando di avere assolto ai doveri morali verso i figli fino al 2019, interrotti per il rifiuto di vederlo da parte di uno dei due e fino al 2017 anche a quelli economici successivamente non più onorati per il proprio coinvolgimento in una vicenda giudiziaria risoltasi con una assoluzione nel 2022. Anzi, l’uomo sosteneva che era stata la Arcucci ad escludere il padre dalla vita dei figli “con ciò rinnovando – si legge nel dispositivo – in loro traumi affettivi non sanati, arrivando ad eliminare anche il contributo affettivo dei nonni paterni”. Non solo, l’uomo riferiva anche di aver sporto contro l’ex coniuge denunce-querele per ingiurie, minacce ed altri reati ed in particolare “per aver assunto in più di una circostanza comportamenti da stalker finalizzati a ledere la sua immagine personale in pubblico e all’interno della famiglia mettendogli contro i figli”. Nel pronunciarsi definitivamente il collegio osservava: “La dichiarazione di decadenza discende dall’accertata incapacità del genitore di assumere condotte e decisioni nell’interesse dei figli minori in violazione dei doveri di mantenimento, istruzione e cura. La misura è preposta essenzialmente alla tutela dei minori, ai quali va garantita la formazione di una personalità psicofisica: l’adozione di tale determinazione è consentita solo nel caso in cui la condotta del genitore abbia cagionato ai figli un grave pregiudizio. Ciò posto è avviso del collegio che l’accertata violazione da parte di D’Abundo Antonello dei doveri parentali induca, allo stato, l’esclusione del ruolo genitoriale il cui esercizio non ha fino ad ora tenuto conto delle esigenze di crescita dei figli minori e soprattutto rischia di inquinare il sereno sviluppo della personalità”. Da qui la decisione di dichiarare il D’Abundo decaduto dalla responsabilità genitoriale.