“L’intrusa” al cinema ‘Excelsior’, Di Costanzo: «Prima di chiudersi, guardare il mondo con occhi diversi»
Gianluca Castagna | Ischia – Esiste un confine assai sottile che chi lavora nei contesti del disagio conosce bene: è il confine che separa le azioni di accoglienza e solidarietà dal timore di nuove fratture sociali, le isole di condivisione e crescita comune dal pericolo di velenosi contagi. E’ il limite attorno al quale si muove “L’intrusa”, l’ultimo film del regista ischitano Leonardo Di Costanzo, presentato lo scorso maggio alla Quinzaine des réalisateurs del Festival di Cannes, in questi giorni in uscita sugli schermi italiani e francesi. Noi lo vedremo, fino a mercoledì prossimo, al cinema Excelsior di Ischia Porto.
Il film racconta la storia di Giovanna (interpretata dalla coreografa e danzatrice Raffaella Giordano), fondatrice della Masseria di Napoli, un centro ricreativo per bambini, nato per tenerli al riparo dal degrado e dalla delinquenza. Qui un giorno arriva, con i suoi due figli, Maria, moglie di un boss della camorra arrestato per l’efferato omicidio di un innocente. La sua presenza nel centro mette in crisi l’intero sistema di protezione sociale su cui la Masseria si fonda: la famiglia del boss che cerca protezione è al tempo stesso l’emblema di tutto quello da cui i bambini, che frequentano il posto, devono essere protetti. Giovanna si troverà dunque a vivere un dilemma: quale ragione deve prevalere? Quella delle mamme che non vogliono contatti con parenti di una famiglia criminale? O quella di una giovane donna che chiede di dare ai suoi due figli la possibilità di fuggire da un destino criminale già scritto?
Con “L’intrusa”, Leonardo Di Costanzo torna a raccontare le difficoltà (talvolta invincibili) dell’uomo di ribellarsi alle regole di un gioco che non permette vie d’uscita, a interrogarsi su quale sguardo adottare verso una realtà così problematica. Il linguaggio è quello del cinema, arte che non è confondibile, anche se a volte può essere complementare, con quella del sociologo o del politologo. E’ per questo che dai suoi film, e prima ancora dai suoi bellissimi documentari, non emergono tesi precostituite ma storie, individui, binari e vite dismesse. Intrecci di riflessioni che si fanno immagini, pensieri che si stemperano in emozioni. Senza tranciare giudizi e senza ricorrere ai meccanismo di identificazione più immediati.
“Il Golfo” ha incontrato il cineasta isolano a pochi giorni dall’uscita del suo film.
Come nasce il progetto de “L’intrusa”? Un episodio di cronaca o c’era già, dentro di te, l’idea di porre i personaggi di fronte a un dilemma così difficile da sciogliere?
Mi sono spesso interessato, nei miei documentari, alle figure di mediazione sociale, a quelle persone cioè, che, per la posizione che occupano nella geografia sociale, offrono un punto di vista privilegiato per raccontare un quartiere, una città o una società in un dato momento storico. Mi sembrava di ritrovarvi gli elementi della narrazione classica: l’individuo/eroe, gli ostacoli che si frappongono al suo agire, la collettività, il conflitto etico. Conoscevo quel mondo, per un periodo di tempo ho seguito queste persone pensando di farne un documentario. Poi ho avvertito la sensazione di immergermi in situazioni di gravi difficolta, mi scocciava usare il loro potere per filmarli. Non hanno molta voglia, sono persone pudiche. E tuttavia continuavo a pensarli come sperimentatori della nostra umanità, sempre sulla linea di frontiera tra il bene e il male, la legalità e l’illegalità, l’accoglienza e l’intolleranza. Negoziano continuamente questo limite, mai così rigido come quello che potrebbe riguardarci solo perché abitiamo posizioni protette. La cosa più interessante era sperimentare queste relazioni; quindi, quando ho iniziato a pensare il film, ho approcciato storie molto simili a quella che ho raccontato. Osservazione e incontri con persone e gruppi che agiscono al centro o in periferia di Napoli, dove il racconto si ambienta. Ho messo insieme queste storie ed è nato “L’intrusa”.
La scrittura con Maurizio Braucci e Bruno Olivieri segue dunque un lavoro laborioso.
Siamo partiti con una sceneggiatura molto parlata, dove tutti i personaggi che fanno parte della contesa, e che mettono Giovanna, la protagonista, di fronte al dilemma, spiegano molto le proprie scelte. Come nella tragedia classica dove ognuno racconta la propria posizione nel mondo. Con il tempo la scrittura è divenuta sempre più asciutta, essenziale, fino al punto in cui la parola è ridotta al minimo. Per gli attori è stato molto complicato, avendo pochissime frasi a disposizione per imporre il proprio carattere e raccontarsi.
Fino a che punto è possibile forzare le nostre resistenze? Chi possiamo accogliere e quando possiamo farlo, anche rischiando tutto?
Una risposta valida per tutti non esiste. Una spettatrice mi ha confessato di capire quei personaggi che respingono Maria. Non sanno quello che noi sappiamo, cioè il suo percorso di redenzione. L’unica risposta che il film suggerisce è che, prima di chiudere, bisogna valutare le conseguenze. E’ necessario spostare il punto di vista, guardare le persone e il mondo in modo diverso.
Ancora Napoli, come in molti tuoi film. Un immaginario con più possibilità di irruzione rispetto a “L’intervallo”. Come ti sei difeso dal proverbiale cannibalismo di questa città-mondo?
Mettendomi di fianco, come ne “L’intervallo”. La città è lontana, la maggior parte del film si svolge all’interno dello spazio del dramma, un grande giardino circondato da siepi e mura, ai piedi dei palazzoni di periferia, all’interno del quale c’è la sede della Masseria e la casupola occupata. Un po’ come uno spazio teatrale. Ne ‘L’intervallo’ la finzione aveva più capacità di imporsi: un luogo protetto, le mura, i giardini, il corridoio, i chiaroscuri. In un “altrove” di quel tipo è stato più facile imporre il racconto e il distacco dalla realtà. “L’intrusa” è girato di giorno, la realtà intorno si percepisce, si vede. E’ stato più complicato imporre lo spazio separato.
Escamotage?
Nessuno. Abbiamo lavorato sulla scenografia, optando per una vecchia masseria con murales tratti da disegni di Gabriella Giandelli. Un raddoppio falso di quello che vediamo dall’altra parte.
Anche stavolta nessun attore professionista. Particolari timori?
Ho un po’ la sensazione che molti attori professionisti si portino dietro la storia e l’immaginario che li caratterizza. In queste storie così delicate, nelle quali i personaggi hanno pochissimo testo, è difficile trasformare un attore noto e dargli una lettura propria. Forse è un mio limite, ma so che lavorerò con attori professionisti, prima o poi. Mi piace lavorare con i non professionisti, con la loro lingua, la voce, la musicalità. Per me è un fatto vitale.
Come è andata con Raffaella Giordano, nota danzatrice e coreografa?
Cercavo un attrice che venisse dal teatro sperimentale degli anni ’70 e ’80, con una grande disponibilità a incontrare gli altri, a mettersi in discussione. La difficoltà è che Raffaella arrivava dalla danza, abituata a raccontarsi con il corpo, il gesto, mentre in questo film quasi non doveva muoversi. Le avevo cucito addosso un ruolo molto contenuto, che avesse intensità nello sguardo e nella postura. Ho dovuta convincerla, perché inizialmente non voleva farlo. Poi si è sentita pronta, ha accolto tutti i suggerimenti che gli venivano dati. Siamo molti contenti del risultato.
Il film è stato presentato in anteprima alla Quinzaine des Realizateurs del Festival di Cannes. Com’è stato accolto dal pubblico internazionale?
La stampa internazionale ha risposto molto positivamente. Quella francese, in particolare. Le Monde ne ha scritto benissimo, ai Cahiers pare siano entusiasti. Anche la proiezione al pubblico, a Cannes, è stata accompagnata da tantissimi applausi. A un certo punto ci hanno praticamente sbattuti fuori perché doveva cominciare un altro film e il pubblico continuava ad applaudire. L’ho presentato anche in Germania, al Festival di Monaco. Reazioni molto attente, interessanti. Sembrava avessero assistito alle nostre discussioni in fase di scrittura.
“L’intrusa” sarà proiettato in questi giorni al cinema “Excelsior” di Ischia.
Avrei voluto esserci, ma mi è davvero impossibile. Domani parto per Annecy, in Francia, al Festival del Film Italiano, dove presenterò la pellicola e dove mi hanno dedicato anche un piccola retrospettiva. “L’intrusa” esce in tutta Italia e in Francia proprio in questi giorni, mi tocca un tour importante e faticoso. Firenze, Napoli, poi Roma per partecipare alla trasmissione Rai Stracult, infine Milano. Tutto in pochissimi giorni.
Insegni cinema, o meglio, a fare cinema. La querelle sulla fruizione di un racconto cinematografico in sala ti appassiona oppure no?
Francamento no. E’ una querelle vecchia. Il cinema è meglio nelle sale, d’accordo, anche io preferisco il rito collettivo, la sala buia. Ma bisogna prendere atto che il pubblico oggi sceglie altri modi per vedere un film. E’ più interessante capire cosa questo produrrà in termini di scrittura. Sicuramente qualcosa cambierà, adesso è difficile da capire. Si tratta di innovazioni che cambiano totalmente il modo di fare cinema. Ognuno di noi si pone il problema in maniera più o meno consapevole.
Quali sono i registi che oggi ti piacciono di più oggi?
Gli iraniani. Come Asghar Farhadi, che mi piace molto. Cineasti che riescono a essere semplici e al tempo stesso profondi. Tutti hanno come riferimento il cinema italiano del dopoguerra. Mi ricordo il set di ‘Tickets’, film di Olmi, Kiarostami e Ken Loach su cui ho girato un documentario. Kiarostami, di cui sono sempre stato un grande estimatore, non smetteva mai di ringraziare Olmi. Se non avessi visto “Il posto”, diceva, non avrei mai cominciato a fare film.
Faresti un film sulla politica italiana?
Penso di aver fatto sempre film politici. Sulla quella italiana in senso stretto, ho girato un documentario, “Prove di Stato” dove seguivo da vicino Luisa Bossa, sindaco di Ercolano a metà degli anni ’90. Difficile spiegare come si passa da un progetto all’altro. Mai avrei pensato di fare film di finzione, ad esempio. Poi ci sono arrivato per una esigenza narrativa: quello che avevo imparato non mi bastava più a raccontare quel che volevo raccontare. Ora ho una serie di intuizioni, o di vaghi desideri, cerco di capire se sono reali oppure no.
I film migliori sono i primi, quando c’è urgenza di dire qualcosa. E’ così o mantieni sempre la stessa frenesia?
Senza non riuscirei a fare cinema. Oggi è talmente difficile fare un film che bisogna davvero credere a quello che si sta facendo. Vale per tutti, anche per chi fa il cinema di Natale. Questa storia del film d’autore, dove la necessità sarebbe più forte che altrove, corrisponde a una visione antica. E’ una semplificazione. Anche ora ho alcune idee in testa, devo sperimentarle, sentire che sono davvero buone…
Sarà il tuo prossimo film?
Non ho una risposta, comincio adesso a pensarci.