Con la messa in onda de “Il tradimento”, l’ultimo dei tre episodi ambientati a Ischia, si chiude il rapporto tra “L’amica geniale” e l’isola verde. Un legame nato prima tra le pagine di Elena Ferrante (forse frutto di una frequentazione giovanile mai dimenticata), poi trasposto – non senza difficoltà, data la radicale metamorfosi dei luoghi – in tre capitoli televisivi: uno nella prima stagione (“L’isola”, diretto da Saverio Costanzo), due in quella in corso (“Il bacio” e “Il tradimento”, diretti entrambi da Alice Rohrwacher).
Storia nella storia, determinante per l’amicizia tra Lila e Lenù, perché segna la prima seria frattura tra le due ragazze. Un feuilleton sentimentale d’alta classe che in fondo racconta l’Italia, la sua crescita e i suoi tradimenti, la crisi interna e la sua faticosissima rinascita.
L’avanzata irresistibile del racconto trova nell’ambientazione ischitana un deciso fattore di accelerazione. Lo era già nella prima stagione, quando la parentesi baranese dal rione-prigione permetteva a Lenù di scoprire se stessa, i suoi desideri per Nino Sarratore (che diventa co-protagonista a tutti gli effetti), ma anche le trappole del corpo e la violenza lasciva del padre di Nino.
Con “Il bacio” e “Il tradimento”, il susseguirsi ineluttabile degli eventi, la logica delle cause e degli effetti, l’accettazione incondizionata della simulazione e della dissimulazione che investono tutti i personaggi, intrappolati in una sorta di quinta teatrale vacanziera, non consentono prese di distanze di sicurezza: non lo vuole la regista che, con focali lunghe e visuale di campo compressa, incolla la macchina da presa ai corpi dei giovani protagonisti alle prese con l’irruenza fisica dell’amore giovanile; non lo vogliono gli spettatori (quelli ischitani, in particolare) tutti troppo implicati (a rivedersi, più che a riconoscersi), per farlo.
Nell’episodio dedicato ai baci (dati sempre alle persone sbagliate?), e quello andato in onda lunedì sera, in cui esplode la passione tra Lila e l’unico ragazzo che Lenù abbia davvero amato, l’arrivo di Alice Rohrwacher alla regia (al posto di Costanzo) è decisivo.
L’isola delle meraviglie sovverte ogni realtà precostituita: dal paesaggio al folklore, dal tempo cristallizzato nella memoria (menzognera!) al grosso equivoco delle tradizioni.
Un mondo che, al di là delle icone da cartolina (praticamente assenti ne “Il bacio”), prende vita solo perché (sor)retto dai suoi personaggi folli, innamorati, delusi, arroganti, subdoli, smarriti, vogliosi o traditi.
Aghi di una bussola sensibile in un paesaggio di geografia vacanziera astratto ma non marginale.
Non è così importante, al di là delle pretese di un tour operator o di una pro loco, che le onde del mare siano quelle della spiaggia di falesie dell’Arenauta e non quelle della baia di Citara. Contano i marosi interiori dei ragazzi. La frustrazione di Pinuccia invaghita di Bruno Soccavo, la cotta di quest’ultimo per Lenù, le ondate di rabbia e gelosia della ragazza che assiste davanti ai suoi occhi al tradimento della sua amica, abituata a prendersi sempre quel che vuole davvero. Inutile stare lì, a farsi venire una congiuntivite, per rintracciare i tornanti che portano ai Maronti. Al momento sono loro, giovani “divinità scadute, impegnate in un gioco stupido” (secondo il punto di vista di Lenù) i punti cardinali di quel mondo.
Il fascino de “L’Amica Geniale”, su pagina e su piccolo schermo, è dovuto proprio alla capacità di trasportarci in un mondo che non c’è più, presentato però senza nessuna nostalgia, nei risvolti più puri, ma anche in quelli più violenti o nervosi. Le stesse comparse, raggruppate nel campo dell’inquadratura, riescono a risultare presenti, e al tempo stesso già (tra)passate.
La Rohrwacher sceglie un linguaggio più lirico e naturalistico, ma anche nella calligrafia maggiormente insidiosa (il Castello Aragonese, la terrazza su Sant’Angelo, il centro storico di Forio coi panni stesi e i manifesti del PCI, le orchestrine di Rizzoli in piazza Santa Restituta a Lacco Ameno), riesce ad andare oltre le banalità e l’affresco bucolico, oltre la natura più buonista e scontata. Al di là della fiction furba, della facile bellezza delle grandi bellezze o delle inquadrature ammiccanti. I simboli dell’immaginario turistico, ad esempio, sempre ben sfocati o mutilati, quindi straordinariamente suggeriti (come le cupole orientaleggianti nelle fatali notti foriane sui tetti).
La macchina da presa pedina i corpi di questi ragazzi come un fantasma, li schiaccia al contatto con lo spazio (cielo, mare, terra), ma poi lascia emergere la polvere dei sogni o degli incubi. Come la pioggia che aggredisce, senza lavarle, menzogne e reticenze che abitano le stanze della casa di villeggiatura a Panza.
Come lo sguardo, inquisitorio e collettivo, fisso su Lenù nel bar di Lacco Ameno. Come quel bacio che prima la ragazza immagina (perché raccontato dall’amica), poi vede di persona e di cui, in entrambi i casi, avverte l’amarissimo sapore.
La dimensione fantastica, astratta, non può che provocare sospensione del tempo, quindi scarsa percezione dello spazio (e delle sue coordinate più o meno note).
Poche ciance o sciocchi malumori: bisognerebbe sentirsi (come minimo) onorati che lo sguardo di questa regista di così grande talento (apprezzata da Martin Scorsese come da Bong Joon-Ho), si sia posato su questa storia e sulle sue location ischitane, per seguire un filo preciso e geometrico che permette al destino di disegnare le sue traiettorie.
Per questi due episodi, così originali all’interno della saga televisiva (e d’alta qualità cinematografica rispetto agli standard di Rai fiction), Rohrwacher si è affidata ai colori, ai suoni e alle voci (comprese quelle, meravigliosamente d’antan, di Rita Pavone e Gino Paoli), alla loro pura forza significante, alla coincidenza con la natura dei protagonisti, al loro desiderio di vivere, di amare ed essere amati (o anche corteggiate, come nella scena al bar dove la mamma sfiorita di Lila viene invitata a ballare da Pasquale ‘Dragon’ Di Costanzo). Queste donne si interrogano, curiose, sul piacere dei propri corpi, sul rapporto con gli uomini (soprattutto i peggiori, visto con chi Lenù deciderà di perdere la verginità sulla spiaggia dei Maronti), sulla libertà di scegliere pagata a carissimo prezzo.
Una storia di dolorosa emancipazione, quella di Lila e Lenù, che gli interessi perniciosi di qualcuno oggi vorrebbero farci dimenticare, ma che questo racconto, prima in un libro che ha fatto il giro del mondo, poi in una fiction di indiscutibile successo, ci restituisce intatta e piena di una forza, anche oscura, anche distruttiva, che avrà ragione di ogni inganno.
Non se ne abbiano dunque a male gli appassionati di voyerismo locale se, in questo dribbling in forma libera di immagini costruite con precisione euclidea, solo poche volte l’inquadratura lascia attorno ai giovani interpreti lo spazio e l’aria sufficienti per far vivere e palpitare lo scenario di varia umanità (e varia location).
Le drammaturgie hanno una propria geografia (anche umana) che quasi mai corrisponde a quella reale (altrimenti come potremmo passare sopra a tutte quelle vecchiette ricurve con fazzoletto nero in testa e uomini scalzi con asinello affianco mentre altrove si prepara lo sbarco sulla Luna?), e i due episodi ischitani, nella loro natura circolare, risultano perfettamente funzionali a suggerirci l’importanza di andare oltre quello che si conosce, sperimentare l’ignoto, diventare padroni di se stessi, imparare a conoscersi, a capire e seguire le proprie passioni fino in fondo.
Anche per questo la doppia sfida de “L’amica geniale” (soddisfare chi già conosce la storia e attrarre chi ne aveva solo sentito parlare) può dirsi pienamente riuscita.