Le “Zeddose” e l’etimologia di una parola
Cosa significa il termine “Zeddosa”? Le opinioni al riguardo sono molteplici, ma la più gettonata pare che sia quella secondo cui tale parola sarebbe la procidanizzazione della parola “intonsa”, vale dire ancora non delibata
Se chiediamo ad una ragazzina procidana sui dodici. tredici anni (ma anche alla sua mamma) chi o che cosa si intenda con questo nome, state pur certi che sul loro volto apparirà un’espressione di stupore, se non di disgusto all’idea che possa trattarsi di cuoi capelluti ricoperti di “zelle”, vale a dire di zone senza capelli o addirittura ricoperte di secrezioni infette e maleodoranti.
Ma state tranquilli,nulla di tutto questo!Molto più semplicemente con tale termine si fa riferimento ad un rito della Settimana Santa procidana, molto in voga negli anni passati, durante la prima metà del secolo scorso.In tempo diQuaresima da ogni “grancia”, vale a dire da ogni parrocchia dell’isola, partivano, nelle prime ore del pomeriggio, dei cortei di ragazze molto giovani (non superavano i quindici anni) che, dietro un prete che portava un Crocefisso, giravano per le strade di Procida cantando inni penitenziali ed entrando in tutte le chiese.Queste ragazze, proprio in virtù della loro giovane età, dovevano circolare solo di primo pomeriggio, con la luce, ed essere a casa prima dell’imbrunire, perché era inconcepibile che delle ragazze così giovani rimanessero per strada dopo tale ora. Ma cosa significa il termine “Zeddosa”? Le opinioni al riguardo sono molteplici, ma la più gettonata pare che sia quella secondo cui tale parola sarebbe la procidanizzazione della parola “intonsa”, vale dire ancora non delibata. Per lo meno così si riteneva… Il prete che le precedeva era quasi sempre un certo “Murieddo”, un buon uomo, male in arnese, sempre teso a far quadrareil pranzo con la cena. Basti pensare che ogni mattina quando usciva di casa, andava informandosi se c’erano dei morti freschi così da poter andare al funerale e ricevere l’offerta dei parenti. Quando morti non ce n’erano lui cantilenava sconsolato:”Campa casa! Campacasa!…”.Questi gruppi di ragazze attraversavano le strade di Procida nel tepore primaverile e nel silenzio di vie senza traffico. I loro canti echeggiavano argentini tra le mura delle case.Ciascun gruppo veniva chiuso da un altro gruppo di “oneste matrone, moribusatqueaetategravves”, severe per costumi ed età, che avevano il compito di sorvegliare queste giovanissime. Ma c’era poco da sorvegliare! Era giocoforza che questi gruppi si dovessero incontrare per strada ed allora era tutto uno scambiarsi di epiteti, battute, frecciate e sfottò anche piuttosto pesanti. Poteva capitare, ad esempio, che il gruppo diSènt’Cò, incontrando quello dell’Annunziata. dicesse loro, cantando lo “Stabat mater”e senza alterare la tonalità: Vuje puzzate re crapa e de stalla!”. Al ché le offese rispondevano, sempre cantando,E vuje puzzate re oescefrecèto! questo modo di comportarsi è sicuramente mutuato da analoghi cortei religiosi in onore di divinità pagane così bene rappresentati nelle commedie di Plauto e di Aristofane. In quei tempi a Procida le occasioni di svago e di divertimento erano così rare che anche un corteo, sia pur penitenziale, poteva servire allo scopo. D’altra nella prima metà del secolo scorso le chiese avevano un valore preponderante nella vita sociale, culturale ed anche domestica degli isolani. Se un giovanotto voleva stabilire un certo contatto con qualche ragazza non poteva fare a meno di sobbarcarsi a lunghe prediche di Quarantore o ai vari tridui e novene che si tenevano numerosi.
Le navate della chiesadell’Annunziata erano strapiene di giovanotti che occhieggiavano tra il pubblico alla ricerca dell’oggetto del desiderio. Ed allora era tutto uno scambiarsi di strizzatine d’occhi e di segni vari fra i due con la speranza che nessuno se ne accorgesse. Speranza vana! Si Stabiliva nelle chiese un’atmosfera ben poco mistica. Ad onta di una liturgia ricchissima e fastosa. Ricordo di aver sentito con le mie orecchie un predicatore venuto da fuori che, resosi conto della situazione, disse dal pulpito: “A Procida non ci sono teatri, ma le chiese sopperiscono magnificamente alla mancanza!”Così come non si poteva fare a meno, la domenica mattina di assistere allo “sbarco” della gente dalle chiese dopo la messa. Le scale di S. Leonardo o il viale della Madonna della Libera erano una sfilata di bellezza ed eleganza.Giovani ragazze, bellezze in boccio. Sfilavano serie e compunte, seguite dalle madri che le sorvegliavano attente, senza disdegnare di lanciare ogni tanto degli sguardi ai lati della strada, come alla ricerca di qualcuno. Oppure scendevano teneramente abbracciati Totonno e Sisina, mangiandosi con gli occhi l’un l’altra, come a dimostrare una perfetta intesa fra di loro, dopo che c’erano state delle chiacchiere su di lei quando lui era imbarcato. Sfilava tutto un mondo, non innocente, ma farisaicamente confessionale. Ed in questa atmosfera si inserivano perfettamente le “zeddose” con le loro intemperanze giovanili frammiste ai canti penitenziali. Il segno distintivo di queste giovani era il velo. Un velo lungo da coprire quasi tutta la persona riccamente ricamato a mano. Mia madre, fino a poco prima di morire, mi mostrava con orgoglio il suo velo da “zeddosa” e ci teneva a precisare che l’aveva ricamato personalmente. Il velo era un capo di prestigio nel corredo nuziale di una ragazza. Ed era anche uno status symbol. Dalla ricchezza del velo si poteva arguire lo stato sciale della ragazza. I cortei delle “zeddose” attraversarono le vie di Procida fino all’inizio degli anni ’40 del secolo scorso. Poi l’inizio della guerra e forse la paura dei bombardamenti, ne determinarono la scomparsa. Ho avuto la fortuna in questi giorni di parlare con una di queste “zeddose” di un tempo.Una piccola donna, agile e lucidissima, ultranovantenne: una sopravvissuta. Mentre parlava con me e ricordava aneddoti ed episodi di quegli anni giovanili e le luccicavano gli occhi. Poi con voce flebile, quasi assentandosi, ha concluso: “Bei tempi! Bei tempi!Come darle torto?