Ischia Dolphin Project, in barca a vela sulla rotta dei cetacei
Gianluca Castagna | Ischia – Uscire in mare alla ricerca di soffi e pinne per individuare capodogli, delfini, balenottere. Una barca a vela di 18 metri, il Jean Gab, una decina di persone tra equipaggio, ricercatori e appassionati, che prendono il mare da maggio a ottobre per localizzare, studiare e catalogare i cetacei che attraversano il golfo di Napoli. Nel grande canyon di Cuma, sistema di canali sottomarini che, malgrado le intense scorrerie dei natanti durante la stagione estiva, resta ancora così ricco di alghe, plancton, piccoli pesci e grandi predatori. Nutriente indispensabile per riattivare la catena alimentare e assicurare la preziosissima biodiversità marina.
Ecco il progetto Ischia Dolphin Project, studio di ricerca a lungo termine portato avanti da oltre due decenni grazie alla OceanoMare Delphis onlus, organizzazione no profit guidata da Barbara Mussi e Angelo Miragliuolo, con lo scopo di conservare quanto più possibile l’habitat utilizzato da balene e delfini, habitat sempre più degradato e minacciato da attività antropiche. La presenza di diverse specie di cetacei in un’area tutto sommato limitata rende il progetto un’occasione unica, appassionante, necessaria per studiare i cetacei e compararne l’ecologia comportamentale. Attraverso studi non invasivi, promuovendo programmi di educazione e sensibilizzando l’opinione pubblica sull’importanza dell’ambiente marino e del popolo che lo abita. Perché la conservazione non si fa solo con la scienza. Ad affiancare il team di ricerca, appassionati che vogliono condividere per una settimana (e forse più) la vita del biologo marino e dare così un contributo concreto, che non è rappresentato solo dal supporto finanziario (importante, ovvio) ma anche diventando protagonisti in barca e in mare della raccolta dati. Un’esperienza preziosa alla scoperta dei mammiferi marini.
Ne abbiamo parlato, in occasione dell’edizione 2016 della Scuola Scienza & Società, con Carlotta Vivaldi, ricercatrice Oceanomare Delphis.
In cosa consiste, in sintesi, il vostro lavoro?
«L’approccio allo studio è interdisciplinare. Le uscite in mare per gli avvistamenti avvengono ogni giorno, eccetto quello di arrivo e di partenza. Si registra la rotta, si cerca di captare la presenza dei cetacei con la strumentazione di cui siamo dotati, capire dove si trova la sorgente, la posizione degli esemplari, cercando di seguirli. Flash, click e altre vocalizzazioni emesse dai cetacei vengono poi analizzate per definire le caratteristiche acustiche delle diverse specie. L’identificazione avviene senza toccarli (operazione altrimenti assai complessa), ma attraverso le foto siamo in grado di stabilire le caratteristiche naturali e permanenti presenti sul loro corpo. Elementi che ci permetteranno poi di inserirli in un catalogo di identificazione. Quanti capodogli abbiamo nei nostri mari? Quanti delfini? Dove mangiano, socializzano e si accoppiano? Il loro numero aumenta o diminuisce nel tempo? Queste sono le domande a cui cerchiamo di dare una risposta. Il delfino comune, a dispetto del nome, è a rischio estinzione. Quando individuiamo un’area dove transita con più regolarità, suggeriamo alle istituzioni che quell’area va protetta e gestita in un certo modo»
Quali sono le specie che attraversano i nostri mari e perché?
«Tutte le specie del Mediterraneo: capodogli, stenelle, tursiopi, balenottere. Su sette specie, sei passano abitualmente dalle nostre parti. Ottimo habitat di alimentazione, presumibilmente adatto anche alla crescita dei piccoli, sia del delfino comune che degli stessi capodogli. Nonostante l’altissimo sfruttamento dell’area, il cibo c’è. Magari scarseggia, ma prima di spostarsi, una specie deve trovarsi in una situazione estremamente critica. Spostarsi significa andare verso l’ignoto, verso un luogo nel quale non si sa quando e se si riuscirà a raggiungerlo. Scelta molto difficile per il branco»
Eppure i nostri mari diventano delle vere e proprie autostrade, nella stagione estiva.
«Per i cetacei l’aspetto del diportismo e del traffico marittimo è molto importante. Anzitutto per la comunicazione. Il suono e la capacità di scambiarsi informazioni sono elementi vitali per la loro sopravvivenza. Quando c’è tanto rumore, restano disorientati, vanno sotto stress, hanno difficoltà a vedere e a trovare qualcosa da mangiare. Sono troppe le onde sonore. Una questione che tocca soprattutto gli esemplari che viaggiano solitari. Quando si interrompono le comunicazioni, diventa difficile anche trovare un partner per l’accoppiamento, quindi per la prosecuzione della specie».
Quali sono le aree su cui lavorate di più?
«Il canale tra Ischia e Procida, tra Procida e la terraferma, tutto il cd. Canyon di Cuma, tra Ischia e Ventotene, a volte fino all’area tra Ventotene e Ponza. Non mancano le uscite tra Ischia e Capri, quindi in definitiva tutta l’area qui intorno».
Secondo le vostre ricerche quali sono le caratteristiche tipiche di questi cetacei? Che struttura sociale hanno? Qual è il loro tasso di riproduzione?
«La struttura sociale varia da specie a specie. I capodogli si dividono in gruppi di femmine, anche i maschi a un certo punto si uniscono in gruppo, poi nel tempo cominciano a diventare solitari. I delfini invece tendono a raggrupparsi in branchi in cui maschi e femmine stanno sempre insieme. Alcune popolazioni di tursiopi, sempre appartenenti alla famiglia dei Delfinidi, hanno una divisione più marcata tra maschi e femmine. Oggi non possiamo parlare di vere e proprie migrazioni dei cetacei, nè si conoscono con precisione le rotte. Ecco perché organizziamo workshop internazionali: lo scambio di informazioni tra ricercatori ci aiuta a individuare i canali, gli spostamenti, le motivazioni. Che possono essere molteplici. In parte esigenze riproduttive, in parte alimentari o perché mutano le condizioni fisiche e chimiche dell’habitat. Sul tasso di riproduzione, vale la letteratura. Dalla nostra esperienza sappiamo che ogni anno ci sono delle femmine che partoriscono. Non le stesse, chiaramente, perché la gestazione è molto lunga».
Quali sono i principali fattori di rischio per la sopravvivenza di questi splendidi esemplari?
«L’interazione con le attività di pesca, penso ad esempio alle reti derivanti, dichiarate illegali dal 2002 e nelle quali ancora oggi finisce di tutto; il degrado dell’habitat, la diminuzione delle risorse alimentari per via dell’overfishing; l’inquinamento chimico e quello acustico. E ancora la collisione con le grandi imbarcazioni La balenottera e il capodoglio, in particolare, vengono spesso in contatto con le navi che fanno lunghe tratte. Impattano con il bulbo di prua di barche molto lunghe, non riuscendo a sentire in tempo il motore posto alla fine dello scafo».
Chi sono i visitatori che vi accompagnano nelle vostre uscite in mare? Da cosa restano maggiormente colpiti?
«Non esiste un identikit preciso. Hanno tutte le età e sono principalmente stranieri: Europa, Canada, Stati Uniti, Australia, Cina, India, Israele, Singapore. Studenti, pensionati, professionisti. Pochi italiani, purtroppo. L’anno scorso, su 120 partecipanti alle nostre attività di monitoraggio, solo un paio erano italiani. Cosa li colpisce? Gli animali, certamente. Non capita tutti i giorni di vedere un capodoglio o un delfino nel suo ambiente naturale. Chiunque ne abbia incontrato un esemplare, rimane colpito. Si appassionano poi al lavoro di gruppo, alla vita di barca, restano contagiati dall’entusiasmo che mettiamo dal nostro lavoro. La maggior parte è già sensibile ai temi ambientali, per loro è molto confortante ci siano persone che investono tanta forza ed energia per la difesa della natura e la salvaguardia delle specie animali».
Quanto è cambiata la strumentazione in questi 25 anni?
«Tantissimo, la tecnologia è andata avanti a velocità impressionate. Il passaggio alla fase acustica ha segnato una svolta incredibile. L’avvistamento dei capodogli, ad esempio, è aumentato sensibilmente, sono cetacei che stanno sott’acqua per tempi record, senza la strumentazione acustica sarebbe come cercare un ago nel pagliaio. Oggi siamo riusciti a catalogare 80 esemplari grazie ai nuovi mezzi. Anche fotocamere sempre più potenti ci aiutano: riconosciamo un individuo anche da lontano, riuscendo ad ottenere molte delle informazioni di cui abbiamo bisogno».
Come sono i rapporti con le Istituzioni?
«Complessi, non è facile interloquire. Penso all’Amp Regno di Nettuno, i risultati sono sotto gli occhi di tutto. Sia chiaro, il nostro è un ruolo tecnico, soggetti a cui le istituzioni si rivolgono per avere informazioni. Non siamo noi a decidere».
Come si può partecipare o dare il proprio contributo a Ischia Dolphin Project?
«In vari modi. Si può diventare soci della nostra Onlus, fare donazioni, partecipare ai campi o alle delle giornate di volontariato perché si vuole essere presenti sul territorio. E prendersene cura».
Il 2015 è stato un anno particolarmente impegnativo e ricco di soddisfazione per il Jean Gab e il team di ricerca. 86 uscite in mare, oltre 60 avvistamenti, 337 km percorsi, l’apparizione di vecchi amici e il censimento di una nuova unità sociale di capodoglio. Di cosa siete più orgogliosi?
«Aver individuato una nuova unità sociale di capodoglio è un evento importantissimo. Ne seguivamo già un’altra, quindi adesso possiamo fare comparazioni, confermare che questa è un’area utilizzata dalle femmine anche per la riproduzione. Abbiamo poi rivisto il capodoglio Aletes dopo cinque anni di assenza. Un esemplare maschio diventato adulto, in buone condizioni di salute che può apportare benefici alla popolazione marina. Manca all’appello un gruppo di delfini che non incontriamo da due anni, l’unica unità italiana censita e monitorata nel tempo. Spero sia solo per coincidenze o traiettorie mancate. Ogni singola area marina va per questo protetta e inserita in un sistema più ampio di reti ecologiche che consentano agli abitanti del mare di vivere e comunicare tra di loro».
(Photo: Oceanomare Delphis onlus)