‘Insula Felix’, dalla Tenuta del Cannavale il vino biodinamico ‘made in Ischia’
Anna e Gennaro Manna, due giovani imprenditori agricoli, hanno presentato all’IPSAR “V.Telese” l’ultimo prodotto legato all’antichissima tradizione vitivinicola isolana. Una Falanghina ottenuta con un metodo particolare da un’azienda di coltivazioni biologiche che, da tempo, ha fatto del rispetto dell'ambiente, della sfida sulla sostenibilità e della tutela della biodiversità i suoi principi ispiratori
Si può diventare agricoltori in molti modi: uno di questi è rilevare un’antica azienda agricola abbandonata da tempo, impegnarsi con umiltà ed entusiasmo per riportarla a un ciclo vitale completo, saldare la voglia di sperimentare con la passione per la terra. La Tenuta del Cannavale, adagiata su una lussureggiante collina a circa 400mt sul livello del mare, rappresenta non solo una delle poche testimonianze ancora integre dell’antichissima tradizione contadina ischitana, ma è diventata per la famiglia Manna, in particolare per i fratelli Gennaro e Anna, un progetto di valore per il territorio e per le sue varietà ambientali ed enogastronomiche più significative.
L’urgenza e la sincerità dell’intento hanno condotto due giovani imprenditori agricoli a interrogarsi sul futuro dell’agricoltura, sulla necessità di risanare la terra, di risparmiare le fonti di energia, di guardare alla salute dell’uomo e degli animali. Partendo dalla coltivazione, prima biologica e poi biodinamica, di una grande varietà di ortaggi per arrivare infine anche all’uva.
L’isola d’Ischia, terra di grandi vini e antica tradizione vitivinicola, si arricchisce oggi di un nuovo protagonista: ‘Insula Felix’, Falanghina prodotta dalla Tenuta Cannavale con metodo biodinamico, e presentato la settimana scorsa all’Istituto alberghiero “Vincenzo Telese” di Ischia. 1756 bottiglie sono il risultato della vendemmia del 2017, ma rappresentano per Gennaro e Anna Manna anche un segnale della direzione in cui sta andando un’azienda che, da tempo, ha fatto del rispetto dell’ambiente e dell’ecosistema il suo faro.
Riuscire ad aver cura della terra per aver cura dell’uomo e viceversa. Nessuna separazione, dunque, se il secondo rispetta i tempi e i modi della prima. Secondo il metodo biodinamico, la fertilità e la vitalità del terreno devono essere ottenute con mezzi naturali. Rendendo vitale la terra ed aumentandone l’attività biologica, le piante crescono in modo naturale, nutrite dall’ecosistema del suolo. Attraverso questo modo di fare agricoltura tutta la fattoria si comporta come un organismo vivente complesso, ma sano. Pratica e filosofia biodinamica che oggi, dopo l’incontro con Carlo Noro e la guida dell’enologo Michele Lorenzetti, trovano spazio anche nella cura dei vitigni e nella produzione del vino della Tenuta. Anziché combattere le malattie, si cerca di innescare le reazioni giuste che possano ricreare lo stato di salute e di equilibrio, ribaltando la logica dell’agricoltura industriale moderna, così prodiga (e disinvolta) nell’impiego di antiparassitari, pesticidi, antibiotici.
Qui la vinificazione presenta altre caratteristiche: velocità di fermentazione e risoluzione degli zuccheri, chiarificazione spontanea, isolamento termico, capacità di ossigenazione, bassa dispersione della materia. Tutte proprietà che si sposano a meraviglia con i postulati della biodinamica, legati alla continuità tra frutto, pianta e terreno, nell’ottica di un ecosistema che fornisce le risorse necessarie alla coltivazione della vite senza ausili chimici.
Anche ‘Insula Felix’, come altri vini biodinamici, ha un carattere marcato e sorprende per la intensa esperienza gustativa che offre. Un’esperienza che riflette la sua storia.
«L’incontro con Carlo Noro e la frequentazione del corso di agricoltura biodinamica presso la sua azienda agricola sono stati passi decisivi», racconta Anna Manna. «Abbiamo cominciato a utilizzare i preparati biodinamici presso la Tenuta e ci siamo trovati benissimo. Non possiamo nemmeno parlare di km 0, visto che da noi l’orto è a meno di due metri dalla terrazza dove teniamo degustazioni. Ci teniamo che i nostri ospiti siano immersi nella natura, completamente a contatto con l’ambiente. La produzione di vino è stato un passo successivo ma affatto scontato. Anzi, mio fratello aveva estirpato un vigneto a Forio, convinto che non si potesse procedere a una vinificazione completamente naturale. Per fortuna, qui al Cannavale l’ha lasciato e dopo la Falanghina, contiamo di ampliare la produzione con Biancolella.» «E’ vero» conferma Gennaro, «gli inizi sono stati forse il momento più difficile. Conoscevo la viticoltura convenzionale e non volendo più usare prodotti sistemici e di sintesi, pensavo che diversamente il vino non si potesse fare. Poi attraverso Carlo e l’aiuto di Michele Lorenzetti, mi si è aperto davanti un mondo. La fatica più grande? Portare su i qvevri, particolarissime anfore giganti prodotte con terracotta utilizzati per la fermentazione, la conservazione e l’affinamento del vino fin dai tempi dei georgiani. La prima l’abbiamo acquistata nel 2017, ora ne abbiamo 3 e contiamo di prenderne altre. Naturalmente le interreremo, come prevede il metodo tradizionale. Per ora le abbiamo lasciate in una cantina/grotta che assicura condizioni analoghe, visto che i trova sotto il livello del terreno.»
«Le abbiamo fatte arrivare direttamente dalla Georgia», sottolinea Michele Lorenzetti, il biologo, enologo, viticoltore e consulente in biodinamica che segue i fratelli Manna in questa esperienza. «Si tratta di giare in terracotta, leggermente trattate all’interno con cera d’api per limitare l’evaporazione e lo scambio con l’ambiente esterno. Ognuna ha un grande peso (dai sei agli otto quintali) e una grande storia alle spalle, tanto che nel 2013 il metodo Qvevri è stato inserito nella lista Unesco del Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Hanno fatto tanto strada: sono passate dalla Croazia e arrivate fin qua, a Ischia.»
Il vino prodotto ha una sua limpidezza naturale. Merito anche dei polifenoli, formidabili antiossidanti e antisettici. «È un metodo che ci consente di poter produrre la qualità nel modo più naturale esistente, senza aggiungere nulla», chiosa l’enologo. Genuina anche l’etichetta «ricavata da una serie di cartoline disegnate a mano da un nostro zio, Erasmo Di Lustro», confessa Anna. «Abbiamo scelto i motivi che più richiamano la viticoltura isolana»
Dopo la produzione, è tempo di commercializzazione. «Mi auguro che, come tutti gli altri prodotti della terra e della nostra tenuta, anche ‘Insula felix’ possa arrivare a quanti più consumatori. E’ un vino di qualità, ma non vogliamo sia un prodotto di nicchia o per pochi. Più che altro mi piacerebbe che emergesse la storia che c’è dietro, che è anche un po’ la storia della nostra famiglia, la sintesi tra la razionalità di mio padre Franco (storico rappresentante di prodotti Bacardi Martini, interlocutore di scuole, associazioni e intere generazioni di barman isolani ndr.) e l’entusiasmo di noi figli nel voler accogliere questa sfida sulla sostenibilità e la tutela della biodiversità.»
«Noi ci abbiamo provato e ci crediamo ogni giorno di più» conclude Gennaro. «La terra va rispettata, mantenuta fertile per fare in modo che liberi le sue proprietà nutritive e faccia crescere piante sane e forti, che è il miglior modo per contrastare le malattie senza ricorrere ad aiuti. Vino, ortaggi o animali poco importa: il nostro obiettivo è puntare sempre alla migliore qualità possibile degli alimenti.»
Foto Tommaso Monti
Michele Lorenzetti, enologo «Sapori e identità della viticoltura locale»
Il vino biodinamico è solo un prodotto di moda o rappresenta realmente una nuova sfida nell’ambito dell’agricoltura sostenibile? Da una parte c’è chi sostiene la biodinamica e la pratica; dall’altra, chi la liquida come qualcosa di “stregonesco”. Sono posizioni ancora così distanti?
Non più. La scelta di coltivare biodinamico, in fortissima crescita, è dettata da un fattore confortante e allo stesso tempo molto semplice: la scelta di voler bere vini sempre più naturali. Oggi la biodinamica è un metodo riconosciuto, da parte degli agricoltori. Perché efficace. Lavorare con minime quantità su grandi superfici rappresenta una grossa sfida sulla sostenibilità. Minimi input e massimi output. Nella natura grandi errori non ce ne sono; semmai li abbiamo portati noi che, con le nostre scienze agricole, in sessanta, settant’anni abbiamo bruciato la fertilità dei terreni
Ci sono delle caratteristiche dell’uva che con un metodo biodinamico emergono in maniera più spiccata?
L’approccio ci permette di instaurare un rapporto particolare con il terreno: la vite, infatti, lavora nella sua massima espressione. Il risultato finale è di grande complessità, grande ricchezza e diversificazione, anche degli aromi. Il terreno fornisce tutte quelle sostanze che si accumuleranno dentro il frutto e ne determineranno il sapore. E’ la ‘’presenza, la sua qualità, qualcosa di oggettivo. Con la biodinamica conosciamo quello che la pianta può fare. In piena libertà, perché ha un terreno che glielo consente. La pianta non è un organismo isolato, vive nella terra, influenzato dalla terra. Più di qualità sarà l’ambiente esterno, più di qualità sarà la performance della pianta nel fruttificare e portare a termine il suo ciclo attraverso la maturazione del frutto e quindi la vendemmia. La biodinamica mette in ordine il fattore ambientale, non tocca il resto.
Quali vantaggi evidenti per un vigneto biodinamico?
Quelli che derivano da una rivitalizzazione del terreno nella sua struttura biologica. Con pratiche invasive, la grande varietà di microrganismi si perde o si disattiva. Rimettere in moto la biodiversità significa rimettere in moto la capacità di quel vigneto a dare il massimo risultato. Si consente all’uva di acquisire tutto il bagaglio necessario per procedere ad una fermentazione spontanea senza alcun problema.
Esiste un consumatore di riferimento per i vini biodinamici? A chi sono indirizzati?
A coloro che hanno voglia di riscoprire il gusto, l’identità, la complessità, i sapori. Che vogliamo siano quelli del territorio, per rispettarne quanto più l’identità. Quello ischitano è un territorio vulcanico di grandi contenuti minerali. Prima ne conserviamo la struttura biologica, poi in cantina, attraverso l’intervento di lieviti autoctoni, ‘selvaggi’, proviamo a tradurre nel frutto quella che è l’identità locale. I consumatori riconoscono sempre, all’interno del bicchiere, quelle caratteristiche e quella complessità. Una ricchezza che inevitabilmente si perde quando si opera in sottrazione. Direi che questo vale per tutti i prodotti della terra: regalano più sapore, se si rispettano le leggi della natura.