IL COMMENTO Uomo per dire umano
DI GIORGIA ORLANDO
John Lewis in un discorso tenuto in occasione della marcia su Washington disse che non era possibile pensare di diventare liberi gradualmente e che quindi esisteva solo un unico tempo possibile per lottare, ed è “ora”, perché “non siamo noi ad aver scelto il tempo, è il tempo che ha scelto noi”. Era il ’63 e la comunità afroamericana era costretta a subire un sistema segregazionista che ostacolava in ogni modo la realizzazione della sua dignità, che distingueva fra “white people” e “colered people”, fra chi aveva il diritto di essere umano ed essere rispettato per questo e chi invece era il continuo bersaglio di una politica ingiusta che non riconosceva loro quel dritto alla vita, alla libertà e alla felicità di cui si legge nella Dichiarazione d’Indipendenza americana. Sono trascorsi 59 anni dal discorso di Lewis e sarebbe ingiusto, se non addirittura minimizzante verso il sacrificio di tanti uomini e donne, non riconoscere che, in effetti, il cambiamento c’ è stato. Tuttavia è urgente chiedersi se sia stato sufficiente, se il continuare a sottovalutare atteggiamenti razzisti e fascisti non sia la causa principale del loro proliferare e, in conclusione, quanto la società tutta ne sia colpevole, perché se un adolescente si sente a suo agio nel pubblicare una storia in cui invita a commettere atti vandalici, in nome di una politica che andava “di moda” poco più di ottanta anni fa, utilizzando un linguaggio fortemente offensivo, tendente alla discriminazione tanto razziale quanto politica, è perché troppo spesso si lascia che parole simili si insinuino nei discorsi che ascoltiamo, nei corridoi, nelle strade, nelle piazze che frequentiamo. È perché è ancora troppo diffusa la retorica del “quando c’era lui i treni erano tutti in orario”-dimenticandosi però delle leggi fascistissime, dell’olio di ricino e del manganello, del MADAMATO; perché è ancora più facile odiare piuttosto che accettare il fatto che siamo uomini tra uomini e che cambia la forma, non la sostanza. Si dice uomo per dire uomo. Non nero, non bianco, non etero, non omosessuale, non ricco, non povero, non donna non uomo.
Uomo come essere umano e che proprio in quanto “essere” è legittimato a pretendere che gli vengano riconosciuti quei diritti inalienabili che sono suoi già solo per il semplice fatto di esistere. Esistere in un mondo però, inaridito dalla violenza e dall’aggressività di un sistema che si ostina a non voler riconoscere come la giustizia sociale sia il fertilizzante per ogni forma di democrazia e libertà e che solo attraverso di essa è possibile sublimare il concetto di comunità nella sua forma più alta e che privare gli altri della loro umanità vuol dire, in primo luogo, disumanizzare se stessi.
Causa quasi sofferenza il fatto che a inneggiare al fascismo in modo tanto palese e convinto sia stato un ragazzo. Mi domando perché qualcuno che abbia ancora la possibilità di scegliere mille strade diverse e diventare milioni di cose diverse, realizzarne altrettante, si faccia bastare il sostenere una politica anti-umana che scelse come suo unico modo di esprimersi la violenza fisica e verbale, l’orrore delle deportazioni, dell’oppressione, della prevaricazione prepotente contro “l’altro”. Cosa rende tanto seducente un’ideologia che è sintetizzabile nella negazione totale e completa della nobile arte politica del confronto, del contraddittorio, della posizione contraria? Cosa c’è di tanto coinvolgente in un sistema che si è affermato solo perché armato, senza scrupoli e senza coscienza? Come succede che un adolescente guardi con occhi lucidi la bestialità di un gruppo che in camicia nera picchiava, distruggeva, disintegrava, inceneriva? Perché preferire la decostruzione alla costruzione? Mi dispiace, davvero. È un modo di leggere la società totalmente fuori contesto e assolutamente limitante. Un ecosistema chiuso in se stesso, isolato, finisce per inaridire, non vi può crescere niente. E anche qualora qualcosa riuscisse a crescervi, non sarebbe nulla di buono, di nutriente, di evolvibile. Nulla che potrebbe mai essere paragonato alla luminosità fertile della Costituzione italiana, nata dalla lotta fatta dagli uomini per gli uomini, e del suo art.3, al suo riconoscere davanti al mondo che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali”.
Nei giovani, appunto, credeva moltissimo Sandro Pertini che prima ancora di diventare Presidente della Repubblica, ha avuto l’onore di essere un gran partigiano. E lui, i giovani, li invitava a battersi sempre per la libertà e la pace, a essere tolleranti e a difendere il diritto di tutti a esprimere liberamente anche le idee contrarie alle nostre, perché è nelle libertà e nei diritti degli altri che sopravvivono le nostre libertà, i nostri diritti. Di fatto, la generazione Z è politicamente impegnatissima, basti pensare alle lotte per la comunità LGBTQ+, quelle a sostegno della parità di genere e l’impegno solidissimo e costante nel portare alla luce le numerose dinamiche legate ai cambiamenti climatici. Complice di ciò è sicuramente l’utilizzo di un linguaggio più consapevole e corretto, una maggiore attenzione verso un’inclusione che comprenda davvero tutti e, non poco importante, la disponibilità costante di un numero enorme di fonti attraverso le quali informarsi consapevolmente. Anche per questo l’età non può essere una scusa o alibi di inconsapevolezza. Non ci si può giustificare con l’ignoranza. Chi si dichiara fascista, chi si comporta da fascista, chi apprezza il fascismo sa esattamente a cosa sta dando il suo appoggio. Anche per questo motivo non basta che il proprio rifiuto verso la politica fascista, che prolifera come una muffa e si insinua nei discorsi che ascoltiamo nelle scuole, in strada, nelle piazze, sugli autobus, si limiti a una storia su Instagram dalla durata scarsa di quindici secondi, perché così come l’odio non è mai solo odio, anche la lotta per la libertà e l’uguaglianza non possono essere oggetto di una riflessione così frettolosa e superficiale. L’invito è quello ad assumere, insieme, un atteggiamento che ribadisca anche nel quotidiano che “un uomo equivale a un altro, qualunque sia la sua stazza, il colore della pelle, la lingua che parla, la fede che pratica, il dubbio che coltiva, il desiderio che insegue, il lavoro che fa, la follia che brandisce o la saggezza che antepone a qualsiasi cosa” (Tahar Ben Jelloun). Ribadire con le nostre azioni che se siamo uguali, non è perché identici ma proprio perché siamo tutti fili diversi intrecciati nello stesso tessuto ed è solo dall’unità e dalla pace che l’uno potrà trarre sostegno, empatia, forza dall’altro. Imparare a riconoscere il dono della solidarietà e applicarla, ecco. Si faccia in modo che l’opera di Jorìt diventi simbolo di unione, di fratellanza, che tutti possano riconoscere in quei grandi occhi azzurri immortalati sulla parete del luogo più importante del mondo- una scuola- la risposta a tutte quelle volte in cui si sono sentiti esclusi, emarginati, in cui hanno pensato o hanno capito di non essere accettati. Che le polemiche sorte in questi giorni siano l’esperimento iniziale di una ancora e più concreta opposizione a qualsiasi forma di fascismo e di discriminazione.
Un sogno: che il mondo diventi casa accogliente e calda e non terra avvelenata e contaminata dal rifiuto, dalla violenza, dall’ignoranza; che gli uomini capiscano che per essere uomini basta avere il coraggio di essere umani. Il rispetto nei confronti di tutti: è tutta qui la formula dell’umanità.