IL COMMENTO Un solo auspicio: che Pace sia
DI RAFFAELE MIRELLI
Il sapore dell’assurdo, quello imprevedibile di una perdita che, improvvisa, come un lampo, raggiunge l’altra parte del mondo, il centro della propria esistenza, provocando un’interruzione illogica. La guerra dura troppo, sempre un’istante in più rispetto al presente, quel presente più breve cui si lega l’eternità. L’umanità persiste nel rincorrere quella ridicola e dolce voglia di affermarsi sugli altri per i beni materiali, troppo materiali, quelli che come il nostro corpo soccombono al deflagrare del tempo, degli ordigni che piovono nelle domeniche di periferia come gocce di depressione. Questa è l’ennesima guerra scatenata per i beni materiali, gli stessi che per il momento producono solo il male più grande. La guerra significa morte. La morte è l’unica eternità contro la quale lottiamo, quella parentesi che ci ingoia avida nella dimenticanza, quell’entità che cerchiamo di evitare, con un po’ di fortuna, ogni giorno.
La primavera imminente non sembra placare l’inverno di due anni non vissuti a causa della pandemia, due anni di lotte e stenti, umani contro umani, accaniti, feroci come fiere dimentiche dell’anima. Intanto siamo lì, a perdere il filo del discorso, perdendo il sorriso, la voglia di andare oltre, perché l’oltre ci rimette dinanzi alla perdita. Non vogliamo la guerra, ma la facciamo, sempre, ai nostri fratelli, alle nostre sorelle, ai nostri figli, per le terre, per un futuro che ancora non prevede la nostra presenza. Lottiamo per superare l’incertezza, quella fragilità che ci hanno donato inconsapevolmente i nostri genitori, con la loro educazione, presentandoci avanti al tribunale del rifiuto, incapaci di coesistenza pacifica. Diventiamo guerrieri forti e sordi alla voce dei deboli, siamo deboli e non sentiamo più nemmeno la nostra stessa voce che ci ammonisce. Ci opponiamo al prossimo per demolirne le convinzioni, per curare il nostro ego ferito, disturbato, incapace: siamo tutti incapaci di pace, almeno per un istante, per ogni giorno che ci resta. E quanti ce ne restano, nel mezzo di una vita che inizia a sentire un corpo, che cede alla seducente stanchezza? Ci domandiamo della fine, cerchiamo di nuovo di essere superiori a tutti, sempre. E allora abbandoniamo pezzi della nostra anima attraverso le lacrime di compassione, che come profughi in fuga attraversano il confine degli occhi increduli, tra materia e spirito, e lasciano sui nostri volti scie umide di tempo, perso, negato.
Avvolti dallo sconforto scriviamo musiche, testi che inneggiano alla pace, che superino la nostra stessa sostanza. Nella lotta degli opposti digrigniamo i denti per non sentire l’essenza della nostra specie.
Costruiamo famiglie che annientano la solitudine, abbandonando le paure, delegandole come eredità ai nostri figli. Senza testamenti scritti, senza regole.
Chi parla di pace? Che cos’è la pace?
L’essenza della guerra?
Sì, la pace è l’essenza della guerra.
E la guerra?
La guerra c’è sempre.
La pace ci manca sempre, essa si lascia trasportare dal pensiero verso la speranza, verso la terra ferma, di fronte allo sguardo giovane di chi ancora non conosce l’orizzonte segnato dall’esperienza.
La pace è come la felicità, va e viene e si lascia desiderare, perché ci abbandona spesso e sa farlo bene. Poi c’è la paura che persiste negli occhi di chi sente le vibrazioni di un orologio feroce, dal ticchettio assordante, ostacolando la speranza di un trattato di pace con gli altri, con noi stessi.
Non riusciamo a firmarlo, non ancora e calcando il foglio con la gentile piuma bianca, riscrivendo il nostro nome, la punta della stessa soccombe segnando, ferendo solo noi, ancora, ancora una volta, lasciandoci sempre più adulti, disillusi.
Che illusione la vita! Dolce e carezzevole creazione che come acqua del mare ci circonda! Intanto governiamo insicuri la nave verso le città, le terre promesse, dove le persone creano le capitali della felicità, stupide, stupite. Ma oggi si marcia per la tregua, non di oggi, di sempre. Oggi si marcia insieme, religiosamente e laicamente, mettendo insieme gli ideali – che tali restano come beni immateriali – quelli più preziosi, gli unici che ci spingono a creare la materia, quella che ci custodisce, perché siamo corpi in marcia verso un unico ideale.
Scambiamoci un segno, almeno uno, di pace: la mano è il simbolo più chiaro e distinguibile che afferra la pace, che afferra l’altro riparandolo dai nostri oscuri intenti. Mettiamo le ali alla pace, diamole colore, come arcobaleno, come sole che acceca d’amore per l’altro. E se la pace non esiste, percorriamo insieme il sentiero di guerra, sempre, ad ogni atto di guerra, di malefatta umana. Corriamo nel viale della speranza, ancora, per educarci all’ottimismo e rifacciamolo ogni giorno, perché la guerra c’è ogni giorno.
Sta arrivando la primavera, che pian piano con la sua luce ci chiede come stiamo, dove andremo.
Rispondiamole che stiamo marciando contro le ingiustizie, le cattiverie, le egoistiche lame del potere. Superiamo la notte, mille volte, ancora, superiamo la consuetudine umana, abbandoniamoci a quella marcia che di divino può avere solo la materia, che diviene un corpo solo. Un corpo che costruisce pace. Sempre.
Marciamo verso la primavera, oggi e per sempre, non dimenticando e aiutiamo con le stesse mani che fanno del male, alimentando le speranze negli occhi di chi ancora non ha esperito la distanza di un ricordo, della fanciullezza, in cui tutti erano presenti, contenti senza farsi la guerra. Marciamo come una famiglia che sa amare, salvando. Salvandoci. Marciamo impetuosi contro le convenzioni imposte dal possesso. Come si fa la guerra, così – oggi – si fa la pace!
* FILOSOFO