IL COMMENTO Razionalità scientifica, irrazionalismo e relativismo culturale
DI GIUSEPPE LUONGO
Il 9 novembre ho lanciato un post sull’ignoranza del fenomeno del Bradisismo, con l’obiettivo di scuotere dal torpore i più attenti osservatori dell’evoluzione del fenomeno. Una provocazione la mia compresa da pochi, accompagnata da un silenzio da parte degli esperti che fa rumore. Solo un esperto che ha studiato il fenomeno in questi anni ed ha sostenuto un modello sulla genesi del meccanismo, privilegiando l’azione dei fluidi presenti nella crosta a poche centinaia di metri di profondità, ha condiviso la mia proposta di un confronto aperto tra quanti studiano o monitorano il fenomeno. È una tesi questa che sostengo da tempo, senza successo. Non sono io ad essere sconfitto, ma la razionalità scientifica. La tendenza dei responsabili dei sistemi di monitoraggio dei fenomeni naturali è quella di non informare le comunità esposte ai rischi sulle cause che li generano e sulla loro evoluzione nel corso delle crisi, limitandola agli aspetti esteriori della scienza, mediante comunicati che catalogano gli eventi registrati e a una “divulgazione” scientifica superficiale. Con questi metodi si ottiene l’effetto di rendere la scienza incomprensibile e “misteriosa” e conseguentemente di diffondere l’irrazionalismo. Se viene meno la razionalità scientifica e prevale il relativismo culturale per il “politicamente corretto” si dà spazio agli integralismi.
La scienza consiste nella formulazione di teorie per spiegare i fatti; quando non si utilizzano i concetti teorici in nome della concretezza, si opera contro il metodo scientifico. Infatti, in tal caso la scienza si riduce alla descrizione dei risultati ottenuti spesso da meccanismi tecnologicamente avanzati e da algoritmi predisposti alla loro elaborazione. Così procedendo il metodo scientifico viene totalmente dimenticato e la verifica dei risultati è demandata ad un criterio che preveda il principio di autorità o un principio “democratico”, basato sul numero di sostenitori o contrari alla tesi. Entrambi i criteri sono inconcepibili, ma sono propagandati dai media. Le autorità responsabili della sicurezza delle comunità che vivono in aree a rischio si fanno scudo delle istituzioni alle quali è demandato il compito della mitigazione del rischio, le quali, a loro volta, si rifanno alle loro organizzazioni scientifiche che operano secondo i criteri sopra ricordati. Così con una tale struttura anche la comunità scientifica è coinvolta, senza l’autorità della completa autonomia dai decisori; in buona sostanza in questo processo non sono pienamente distinte le fasi della valutazione della pericolosità da quella del rischio, prevalendo questa sulla prima.
Abbiamo sempre ritenuto che nella valutazione dei rischi le scelte politiche siano separate da quelle tecnico-scientifiche, con le prime prevalenti. In buona sostanza ai tecnici e alla comunità scientifica è affidato il compito di produrre lo scenario di un evento pericoloso mentre la valutazione del rischio accettabile resta di competenza della politica. Tuttavia, questa separazione non è così netta come apparirebbe, come ha dimostrato il risultato delle sentenze della magistratura espresse per alcuni eventi calamitosi dove le responsabilità sono attribuite a tutte e due le parti.
Se esaminiamo il pensiero di filosofi e politici si scoprirà che il momento scientifico e quello politico si intersecano, diventando la separazione totale tra i due ardua. Augusto Comte (1798-1857) coniò il termine “Sociologia” per indicare la scienza che dovrebbe studiare, in modo rigoroso e obiettivo, le leggi che regolano la società. Ecco che la società può essere studiata col metodo delle scienze naturali. Secondo Antonio Gramsci (1891-1937) poiché la scienza è “trasformazione attiva del mondo” sarebbe essa stessa “attività politica”, in quanto trasforma gli uomini, rendendoli diversi da quelli di prima. La trasformazione perché sia utile per la sicurezza di quanti vivono in aree pericolose deve essere un elemento coesivo perché la comunità possa operare con l’obiettivo di rendere il territorio resiliente. Si potrebbe estendere l’utilizzo della scienza ai sistemi sociali esaminandoli come sistemi termodinamici chiusi o aperti, ma in entrambe le condizioni emerge il problema dell’incremento dell’entropia (disordine, caos). Nei sistemi chiusi il disordine si scarica al suo interno, mentre nei sistemi aperti l’entropia si trasferisce ad un sistema esterno. Se esaminassimo il sistema Comune come un sistema chiuso scopriremmo che l’entropia produce gravi difficoltà nel governo del territorio quando è interessato da un evento calamitoso. In tal caso la ripresa della comunità può realizzarsi rendendo il Comune sistema aperto, scaricando l’entropia in un sistema più ampio. Esempi recenti di questo processo sono i disastri idrogeologici che hanno investito diverse regioni. Questo percorso si è seguito all’isola d’Ischia per la catastrofe sismica e idrogeologica e nei comuni flegrei per il Bradisismo, ricorrendo allo Stato centrale, senza percepire che con questa azione, del tutto legittima secondo la nostra costituzione, il sistema in crisi si comportava da sistema aperto, scaricando l’entropia in un altro sistema.