DI GIUSEPPE LUONGO
Negli scavi al sito di Mazzola di Lacco Ameno, secondo l’affermazione degli archeologi che hanno ripreso lo scavo abbandonato nel 1971, le strutture murarie sono ben conservate nel loro sviluppo verticale. Questa condizione mi fa pensare che il sito non sia stato abbandonato lentamente, altrimenti mi sarei aspettato di ritrovare stratificazioni nel costruito con la tendenza ad una edilizia sempre più povera, indice di una crisi progressiva della comunità, che avrebbe anticipato l’abbandono. Se, invece, l’abbandono fosse stato precipitoso, avremmo i segni di tale processo con il rinvenimento di oggetti importanti abbandonati. Ciò non è stato rilevato. Pertanto, possiamo introdurre un’altra ipotesi: l’abbandono sarebbe avvenuto in tempi rapidi, ma non precipitosi, forse per l’approssimarsi di un’eruzione annunciata da significativi segnali precursori, come un’intensa attività sismica ed eventualmente anche da un progressivo allontanamento del mare, in seguito al sollevamento della costa, prodotta dalla spinta del magma in risalita verso la superficie. L’eruzione avrebbe investito l’insediamento, distruggendo in parte le costruzioni per l’impatto dei flussi e sotterrandoli con ceneri e lapilli rilasciati dalla colonna eruttiva e dalle colate di fango prodotte, successivamente, dal dilavamento delle alture circostanti.
Un’analisi multidisciplinare del sito effettuato da storici, archeologi, vulcanologi, sismologi, ingegneri strutturisti, geologi farebbero progredire non solo i singoli settori disciplinari per l’interazione delle molteplici competenze, ma risulta anche il metodo più efficace per la crescita della conoscenza dell’ambiente fisico nel quale è collocato l’insediamento e fornisce gli elementi per le scelte tecniche maggiormente adatte alla mitigazione degli effetti degli eventi naturali estremi. Un sito archeologico come quello di Mazzola, quindi, potrebbe rappresentare un luogo di dialogo fra discipline diverse. Spesso la mancanza della conoscenza dei meccanismi dei fenomeni naturali, riguardanti terremoti, maremoti, eruzioni, frane e alluvioni che impattano sul territorio, inducono storici ed archeologi ad invocare un evento naturale come causa di una profonda trasformazione nel processo storico che segnala la crisi di una comunità e, perfino, la sua scomparsa. Ischia per le sue caratteristiche fisiche per il passato ha registrato profonde trasformazioni, associate dagli storici proprio ad eruzioni e tsunami e al mito di Tifeo. Il cambiamento di approccio avviene lentamente, dopo la rivoluzione galileana nel Seicento e ancor più dopo la rivoluzione del Tempo profondo prodotta dalla nascita della Geologia tra fine Settecento e metà Ottocento, ad opera, prevalentemente, della scuola anglosassone. Purtroppo, non sono stati sufficienti i progressi nelle conoscenze degli eventi naturali pericolosi e delle tecniche di mitigazione per raggiungere l’obiettivo della mitigazione dei rischi come sarebbe possibile proprio per il progresso di conoscenze e delle tecnologie per gli interventi sul costruito.
Il sito archeologico di Pithekoussai potrebbe, e così per altri siti dell’Isola, laboratori non solo per accrescere la conoscenza dei processi che accompagnarono la colonizzazione greca di Ischia ma anche per estendere la serie temporale dei fenomeni naturali che hanno lasciato segni importanti negli insediamenti, ritenuti responsabili di discontinuità nello sviluppo delle comunità, rappresentandoli come eventi straordinari e sovrannaturali, mancando la totale ignoranza della loro genesi naturale. Questo vuoto di conoscenze ha prodotto uno scenario della pericolosità inadeguato alla realtà. Solo una conoscenza dei fenomeni del vicino e del lontano passato riconosciuti dall’analisi del suolo e degli effetti sugli ambienti antropizzati consente di ottenere uno scenario della pericolosità più vicino al reale.