IL COMMENTO Nome comune di persona singolare femminile
DI GIORGIO DI DIO
C’è il sole fuori, eppure io ho freddo. Il sole è una stella che brucia ma la sua fiamma luminosa proveniente da milioni di anni luce non mi riscalda. Perché il freddo non è fuori, il freddo è dentro di me. Uno schermo alla luce. Io sono solo un’ombra. Un’immagine senza corpo. Ovviamente non riesco a dormire. Il pensiero di domani mi apre le palpebre appena cerco di chiuderle. Mi alzo vado in bagno, mi faccio scorrere l’acqua fredda sul viso. È ora di vestirmi. Mi spoglio e guardo nello specchio il corpo che non è più mio. Questo seno, questi fianchi, queste cosce sconosciute. Questo corpo violato. Sono pronta. Con sempre più nostalgia. Sotto il profilo di un cielo che mi rimanda le note del mio vecchio mondo lontano. Eccolo il tribunale. La folla che aspetta come gli antichi romani nell’arena dei gladiatori. L’avvocato mi accoglie con una cartella sotto il braccio. Vorrei scappare, andarmene lontano, ma è troppo tardi. Entro nell’aula, mi siedo, sento su di me gli sguardi della gente. Poi si alzano tutti. Il giudice si siede, giro lo sguardo e li vedo. Spavaldi sorridenti, intoccabili. E d’improvviso sono diventata io l’accusata.
Lo so, l’avvocato difensore fa solo il suo mestiere, ma ogni sua parola è una coltellata al cuore. Camminavo di sera per strada da sola. Avevo la minigonna, il vestito troppo scollato. E poi troppo truccata e anche un po’ brilla. Avevo accettato io volontariamente, di seguirli in quella casa Con una dialettica che fa mi fa sembrare una ragazza di facili costumi che lo strupo lo ha chiesta, lo voleva. Come se il mio modo di camminare,i miei vestiti, il mio seno fossero un invito ad essere stuprata. Come se la mia voglia di libertà, la mia voglia di vivere non fossero miei diritti, ma diritti di altri a fare quello che vogliono. Come se la mia gentilezza, la mia affabilità, la mia ingenuità nel seguirli facesse di me una ragazza facile. Alla fine del processo sembrano loro i vincitori anche se andranno in galera. E a me resterà per tutta la vita quel terribile incubo. Mi hanno strappato i vestiti, mi hanno morso capezzoli, mi sono venuti addosso una alla volta e tutti insieme, mi hanno sollevata, inarcata, morsa, lacerata. Tutto è diventato nero, tutto si è dilatato. Il dolore cresciuto a dismisura ha cancellato il mio corpo, si è innalzato nell’aria, ha travolto ogni mio senso, mi ha completamente invasa, dispiegandosi nello spazio, ha cancellato la luce. Lasciandomi solo il desiderio di morire.
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Quante ce ne sono state, quante ce ne sono, quante ce ne saranno di donne come questa? Sono sempre di più, ogni anno ogni mese, ogni giorno sempre di più. Lasciate a sé stesse, sole, con il cervello psicologicamente distrutto e il fisico demolito. Vittime di violenza, vittime di stupri, vittime di persone inquietanti, malate, che distruggono la bellezza,la poesia, la vita, l’amore. Milioni di donne che si portano dietro per tutta la vita il loro dramma, in silenzio. Perché hanno vergogna pure di parlarne, perché volgono solo dimenticare. E che alla fine, sono solo statistiche. Una tavola di dati ricavata dalle denunce fatte alla polizia e che la polizia classifica come stupri. Una tavola che non rispecchia assolutamente i dati reali, perché il numero di stupri effettivi deve essere necessariamente molte volte più elevato rispetto al a quelli denunciati. E sono stupri anche quelliesercitate da partner o ex partner, parenti o amici, fuori e all’interno della famiglia, dove ci sono anche bambini, bambini che vedono, bambini chepiangono, bambini che soffrono. Isolamento, incapacità di lavorare, rifiuto di prendersi cura di sé stesse sono solo alcune delle conseguenze per le donne che subiscono violenza nella propria famiglia.
L’ultima ricerca dell’Istat in Italia risale al 2006 ed è stata fatta attraverso interviste telefoniche. Numeri lontanissimi da una realtà che oramai ci siamo abituati a sentire ogni giorno dalla televisione o a leggere sui giornali. Ma cosa siamo diventati, cosa stiamo diventando? Eppure, le conosciamo le nostre donne. Conosciamo le loro notti in bianco accanto ai figli, con le loro occhiaie che arrivano al cuore, con i capelli spettinati perché non hanno avuto tempo nemmeno di guardarsi allo specchio. Che stanno col pensiero al marito, al compagno, ai figli e hanno poco tempo per sé stesse. Che guardano se la casa è in ordine, se il pranzo è pronto, di quelle che non hanno tempo e sono sempre di corsa, ma ti ascoltano lo stesso perché sanno che in una famiglia bisogna parlare, discutere, bisticciarsi se occorre, ma esserci l’una per l’altro. E poi ci sono quelle belle con un fisico da modella, che ondeggiano i fianchi ad ogni passo. Camminano disinvolte, arricciano le labbra, hanno il fuoco negli occhi e i denti che brillano,attirano gli sguardi sull’incavo dei seni. Possono essere serie o poco serie, possono cambiare uomo ogni giorno. Possono voler fare l’amore con chi gli pare. Ma sono loro a scegliere. Sono libere di scegliere. Ma non possono essere vittime senza consenso perché il sesso senza consenso è sempre violenza sessuale. Bisogna smetterla con i pregiudizi che addebitano all’atteggiamento delle donne la responsabilità della violenza sessuale subita. No, ogni rapporto sessuale senza consenso è uno stupro. Il consenso deve essere esplicito e volontario. Altrimenti è dolore, è una cosa aliena che ti toglie il respiro, che entra nel tuo corpo come un veleno. E costringe chi ti vuole bene a parlarti con voce sommessa per paura di romperti perché sei diventata una cosa fragile.
È capita anche di peggio. Capita che ti ritrovi in una chiesa in una bara coperta di fiori, e non puoi vedere le lacrime di quelli che guardano mentre attraversi la navata, e arrivi sotto l’altare dove il prete aspetta per gridare, lui mite uomo di Dio, per gridare la sua rabbia. Per gridare che in quella bara c’è una ragazza che non è più quella dei giorni di scuola, quella che giocava con gli amici, quella che aveva dei sogni, che aveva ricevuto tante promesse dalla vita, quella ora distrutta da fantasie perverse, da impulsi irresistibili, da chi vuole sfogare la sua aggressività per distruggere, umiliare, e talvolta uccidere. E’ un peso di cui abbiamo paura tutti e che tutti portiamo. È il coraggio che non abbiamo.