IL COMMENTO Natura, Rischi e Antropologia

DI GIUSEPPE LUONGO

Alcuni anni orsono uno studioso antropologo mi chiese un contributo sul rischio attraverso un’analisi antropologica. La sua poteva apparire una domanda strana per essere stata rivolta ad uno studioso di fenomeni naturali non competente in antropologia culturale. In verità il mio interlocutore conosceva il mio impegno nella mitigazione dei rischi naturali e come avessi dato peso, in varie occasioni, all’ascolto delle paure delle persone sottoposte alle manifestazioni di fenomeni naturali dall’evoluzione ignota, fornendo loro spesso elementi rassicuranti. Avevo imparato sul campo come interloquire con moltitudini di persone impaurite dalle immagini di una catastrofe immanente, facendo tesoro delle interazioni con colleghi sociologi che avevano operato sulle problematiche della percezione del rischio nelle comunità esposte agli eventi naturali estremi.Questa esperienza mi fece comprendere come fosse più facile per gli “scientifici” rappresentare in forma estremamente sintetica, aiutati dagli algoritmi e dalle leggi fisiche, un fenomeno complesso, rispetto allo scenario costruito dalla mente di una persona culturalmente meno dotata di tali strumenti. Così provai a rendere più comprensibili i messaggi sull’evoluzione dei fenomeni pericolosi traducendo leggi fisiche e algoritmi in concetti più aderenti alle esperienze degli interlocutori. Constatai che la percezione del rischio era più alta nelle comunità con maggiore interazione con l’ambiente naturale e nelle persone più anziane. Segnale inequivocabile della progressiva perdita della comunità del rapporto con l’ambiente naturale.

La risposta al manifestarsi del pericolo è varia, ma generalmente si privilegia la deresponsabilizzazione e le persone coinvolte preferiscono delegare la soluzione del problema a commissari con poteri straordinari, anziché risolverli con il contributo di ciascuno con un piano condiviso.Una comunità che delega non cresce, esautora il ruolo dei suoi rappresentanti, e di volta in volta avrà bisogno sempre di più dei commissari. Quando si verificano le condizioni di incertezza sull’evoluzione di un fenomeno pericoloso, emerge tra la popolazione esposta un nuovo paradigma che prevede la sua partecipazione alle decisioni sulle azioni da attivare per la mitigazione del rischio.Il nuovo Paradigma è indicato come «Post Normal Science». Questo Paradigma emerse in Italia con successo negli anni ‘80 per il terremoto dell’Irpinia e per la crisi bradisismica del 1982-84, prima della sua formulazione teorica. Oggi il Paradigma della Scienza post-normale non trova spazio per analizzare la crisi bradisismica nei Campi Flegrei, ma l’analisi può svilupparsi per altre aree. Infatti, la Protezione Civile e gli amministratori dei comuni invitano i cittadini a riferirsi ai soli comunicati ufficiali sullo stato di pericolo. Questo invito non sarebbe necessario se gli stessi organi trasmettessero alla comunità messaggi esaustivi sullo stato di attività degli eventi pericolosi. Quando la Protezione Civile comunica solo quanto registrato dalle reti di monitoraggio e non fornisce elementi sulle cause dei terremoti avvertiti e del sollevamento del suolo, o altro segnale ritenuto precursore di un evento pericoloso per la stabilitàdei versanti,con tutte le cautele sull’attendibilità delle interpretazioni del fenomeno, è da aspettarsi che nella comunità esposta si vada alla spasmodica ricerca di sapere cosa accade e sul silenzio delle autorità competenti si costruiscono le interpretazioni più ardite. Questo è lo spazio disponibile alla comunità per discutere del pericolo, ma le autorità di Protezione Civile invitano i cittadini a riferirsi solo ai comunicati ufficiali per evitare le false notizie. In questa condizione viene meno il principio della partecipazione dei singoli alla realizzazione di una comunità resiliente che è il fine della Protezione civile.

Quando si registrano esperienze come quella attuale dei Campi Flegrei e le recenti di Ischia con il terremoto del 21 agosto 2017 e dell’alluvione-colata di fango del 26 novembre 2022, emerge con drammatica chiarezza quanto sia necessario definire la pericolosità e la vulnerabilità del territorio e dell’edificato e scegliere il livello di rischio accettabile. Questa scelta è indispensabile vivendo in aree a rischio, ma per una tale scelta occorre procedere ad una pianificazione adeguata alle caratteristiche fisiche del territorio, munirsi di un efficiente monitoraggio, di piani di protezione civile, diffondere conoscenza sui fenomeni pericolosi. Il successo sul tema della sicurezza può essere raggiunto solo quando la comunità esposta percepisce come bene collettivo la riduzione del rischio. Se prevalesse la convinzione che ciascuno possa agire in modo dissennato nel rapporto con l’ambiente traendone solo vantaggi e abbandonando al degrado le strutture per i servizi e per la manutenzione del territorio, allora il disastro sarebbe certo e solo questione di tempo.

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