LE OPINIONI

IL COMMENTO L’inno alla vita di Roberto Vecchioni

Alle 10,20 di martedì 23 maggio, mi sono recato al Liceo Buchner per ascoltare Roberto Vecchioni in una Lectio Magistralis agli studenti. Qui mi hanno guardato straniti e mi hanno poi spiegato che la Lectio si teneva al cine-teatro Excelsior, con circa 400 studenti in rappresentanza di varie scuole. In realtà non avevano voluto pubblicizzare troppo l’evento per consentire la partecipazione di quanti più studenti era possibile. Trafelato, di corsa a piedi, mi sono recato all’Excelsior che traboccava di studenti, professori, fotografi, forze dell’ordine. Sull’evento l’informazione isolana ha poi sottolineato prevalentemente la circostanza che Vecchioni, da bambino, in vacanza a Ischia con la famiglia, si entusiasmò alla notizia degli scavi archeologici di Buchner a Monte Vico e al ritrovamento della Coppa di Nestore, straordinario reperto dell’antica Grecia, tanto da decidere che si sarebbe dato allo studio delle materie letterarie, con particolare riguardo alla storia e cultura greca. Ma questo per me, era un dato noto, avendone il cantautore parlato nell’edizione 2017 del Premio Internazionale di Giornalismo dei fratelli Valentino. Ma al di là della mozione d’affetti verso Ischia e la sua storia archeologica, nella Lectio Magistralis c’è stata davvero tanta altra roba.

A fine spettacolo me ne sono andato dopo che con la splendida canzone “ Chiamami ancora amore” il cantautore aveva emozionato e trascinato i giovani in un tripudio di applausi, tra le luci dei telefonini che ondeggiavano nel buio della sala. Ragione e sentimento, pensiero ed emozioni, mito e filosofia, vita e morte, felicità e dolore, poesia antica e poesia moderna, tutto questo si era dipanato, al cinema Excelsior, come un filo di Arianna che conduce alla soluzione del problema: il senso della vita. Siamo – dice il professore – di fronte ad un dilemma: da un lato la disperazione della finitezza dell’essere umano, con la morte come unica certezza dell’uomo e dall’altro la necessità di dare un senso, una pienezza alla vita che ci è dato di vivere. E tale necessità viene proprio dalla constatazione che siamo di passaggio sulla Terra e che dobbiamo lasciare un segno, per il quale non è necessaria alcuna straordinarietà, alcuna competizione, alcun tentativo di essere per forza migliori di altri. “La competizione – ha magistralmente affermato Vecchioni – non è con gli altri, ma con noi stessi, dobbiamo dare il meglio che siamo potenzialmente in grado di dare”. E il dolore, quello grande che può provare un padre che perde un figlio (o una figlia) prematuramente o la malattia grave di un altro figlio è un’evenienza della vita, è un aspetto ineliminabile della vita, essenziale come la felicità. Anzi, no! – dice Vecchioni – non è esatto parlare della felicità, più giusto parlare di “contentezza”, a patto che non “contenga” solo cose, oggetti, ma pensiero ed emozioni. Questa è la vera contentezza. Sì, ciò è vero per chi sopravvive, ma per chi muore? E muore prematuramente? Qual è, in questo caso, la contentezza possibile? E’ quella che noi continuiamo a vivere “oltre”, attraverso gli altri, attraverso quelli che vengono dopo di noi, ai quali passiamo il “testimone”. La testimonianza è la registrazione di quel che siamo stati, che abbiamo operato, che abbiamo creato.

Tutto questo, dice Vecchioni, lo impariamo dai greci. Loro hanno già detto tutto quello che c’era da dire. E nel suo ultimo libro “Lezioni di volo e di atterraggio”, che è stato presentato martedì, fingendo di dare lezione all’aperto ad un gruppo di studenti (i cui nomi scopriamo poi essere quelli di grandi pittori, da Artemisia Gentileschi a Frida Kahlo, da Correggio a Caravaggio, Raffaello e Tiziano) e a un venditore di bibite e panini di nome Romolo, Vecchioni mette, al centro dell’esistenza, il mito. E’ Prometeo che ha tolto agli uomini la paura della morte, instillando nel suo cuore “speranze cieche” (tuflàs elpìdas in greco). “Il mito – dice il professore – non è un’ombra smarrita, una versione incolore della verità. Il mito è un’altra verità, distinta… Una verità senza prima e senza dopo che non deve dare risposte a come mangiare, bere, litigare, vincere, perdere”. “Forse – aggiunge Vecchioni – che i quadri di Kandinskij o i Canti orfici del poeta Campana non sono veri solo perché non corrispondono al reale?” E tra i greci e la letteratura greca, la tragedia teatrale che meglio riassume il nocciolo della vita, secondo Vecchioni, è l’Edipo a Colono (che segue l’Edipo Re) di Sofocle. La trama la conosciamo: Edipo, ormai cieco e misero, insieme alla figlia Antigone, arriva a Colono, sobborgo di Atene, dove viene accolto dal Re Teseo. Poi arriva l’altra figlia di Edipo, Ismene che riferisce al padre che i fratelli Eteocle e Polinice combattevano e si dilaniavano per primeggiare, ma muoiono l’uno per mano dell’altro. Non la guerra, non la competizione – è la morale del mito – è risolutiva, ma la pace. Ma, a quanto pare, questa lezione del mito greco, non è stata ancora assorbita dal mondo moderno. La grecista Eva Cantarella sostiene che mentre nell’Edipo Re, Edipo non considera una scusante l’involontarietà dei suoi crimini e perciò si acceca, nell’Edipo a Colono invece afferma di non potersi biasimare avendo subito drammi senza colpa e senza consapevolezza e, in tal modo, getta le basi del concetto giuridico moderno di responsabilità.

E poi ancora Vecchioni ci svela che la chiave di tutto per ricomporre conflitti, discordie, incomprensioni, amarezze, è l’amore. “Chiamami ancora amore”, come recita la canzone, tra cui i seguenti versi: “E per tutti i ragazzi e le ragazze/ che difendono un libro, un libro vero/ Così belli a gridare nelle piazze/ Perché stanno uccidendo il pensiero…Chiamami ancora amore, chiamami sempre amore/ in questo disperato sogno (tra silenzio e tuono) difendi questa umanità/ anche restasse un solo uomo”. E lui, il professore, ama, più di tutti, i personaggi “stravaganti”, come la poetessa Alda Merini, bruttissima, uscita da due manicomi, che “detta” le sue poesie, senza registrare e scrivere niente, perché “non c’è bisogno di ingabbiare le parole nella scrittura. Le parole vanno libere, si librano nel cielo dell’Universo e, in qualche modo, si trasfondono nell’anima delle generazioni a venire”. Così come lo “strano” poeta Leopardi canta la Ginestra sulle pendici del Vesuvio, minacciata dalla lava. “Ma come ti viene in mente di celebrare una pianta selvatica lontana dalla gente, che nemmeno viene vista?” gli chiede l’amico Antonio Ranieri, filosofo della storia. E Leopardi risponde. “La ginestra, come l’arte, come la poesia, vive di luce propria, del proprio profumo, della propria ineliminabile essenza, non ha bisogno che siano gli altri ad ammirarla”. Che dire? Erano presenti in sala, oltre a studenti, professori e Dirigenti scolastici, il Sindaco d’Ischia, Enzo Ferrandino, che in apertura aveva portato i suoi saluti così come Alessandra Vuoso del Festival Storiae e la Preside Assunta Barbieri del Liceo Buchner e l’Assessora Regionale alla Scuola Lucia Fortini. Quest’ultima è salita sul palco in chiusura e ha “giocato” un po’ con gli studenti sulla matematica, forte della sua preparazione in Economia, dopodiché ha ringraziato Vecchioni per “la grande lezione data agli studenti”. Non me ne voglia la Fortini, avrebbe dovuto ringraziare per “la lezione che Vecchioni ha dato a tutti noi , professori compresi, Dirigenti scolastici compresi, ai giornalisti presenti e anche a me, a 75 anni”. Non si finisce mai di imparare, finché si vive, e solo così potremo dire, anche noi, con convinzione, quello che ha detto Vecchioni: “ Quando muore un vecchio è come se si chiudesse una biblioteca”.

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