IL COMMENTO La porosità di Napoli e di Ischia. Dal tufo giallo al tufo verde
E’ uscito, tre mesi fa, a cura della storica libreria Dante e Descartes, la riedizione aggiornata di un libricino scritto a Capri nel 1924 dal filosofo Walter Benjamin. Il titolo è “Napoli porosa” e, per quanto sia stato scritto quasi 100 anni fa, coglie perfettamente le maggiori caratteristiche (ancora attuali) della città di Napoli e del popolo napoletano, entrambi considerati “porosi” e ne spiegheremo il significato geologico, urbanistico, demografico ed antropologico. La rilettura di questo libretto ci può aiutare a capire analogie e differenze tra il tufo giallo di Napoli e il tufo verde di Ischia, tra la tendenza dei napoletani a proiettare l’interno delle case verso l’esterno dei vicoli e, più in generale, dall’interno della città all’esterno verso il verde, gli spazi, il mare di Ischia; trovando sull’altra sponda un’accoglienza particolare degli ischitani che da un lato si lasciano “permeare” dagli strati anche più popolari di Napoli e provincia, d’altro lato gli isolani vorrebbero che l’isola sprofondasse e si reimmergesse nel mare per liberarsi di presenze “ invasive” e scomode.
C’è, insomma, porosità e porosità. Ecco cosa scriveva Benjamin dell’urbanistica e dell’architettura di Napoli: “La narrativa di viaggio ha ammantato di colori le bellezze della città, ma, in verità, Napoli è grigiastra: di un rosso o un’ocra grigio, un bianco grigio – una città affatto grigia contro cielo e mare… Dall’alto di Castel San Martino, dove i rumori non riescono ad arrampicarsi, la città, nella penombra del crepuscolo, appare come estinta, trasformata in roccia. Una sola linea costiera si estende in pianura, alle cui spalle, invece, gli edifici si affastellano l’uno sopra l’altro. Palazzi di sei, sette piani, collegati al suolo da vertiginose scale, sembrano, se paragonati alle ville, veri e propri grattacieli. Nelle fondamenta della roccia, dove questa scende fino alla riva, sono scavate delle grotte… Oltre quelle stamberghe, le gradinate discendono direttamente in mare, ove taverne di pescatori sono ricavate dallo spazio naturale delle spelonche. Come la pietra anche l’architettura di Napoli è porosa. Costruzione e azione si permeano in un susseguirsi di cortili, portici e scaloni…E’ in questo modo che si presenta a Napoli l’architettura, momento considerato della ritmica comunitaria. Civilizzata, privata e ben strutturata negli edifici dei grandi hotel e nelle rimesse del molo; anarchica, tortuosa e rustica in centro”. Dunque, badate bene, il centro come “momento condensato della ritmica comunitaria”, dove il popolo “esce” dalla casa per stare fuori “con” gli altri, del quartiere, del vicinato, con i colleghi di commercio e – d’altro canto – la Riviera turistica degli spazi aperti e panoramici. La Napoli dei napoletani contrapposta alla Napoli dei forestieri. Dentro e fuori. Spazio circoscritto e spazio aperto. Trasferite, ora, questo concetto, da Napoli alla villeggiatura ad Ischia. Il “corpo di Napoli” (ma per la periferia vale lo stesso discorso) bisognevole di “uscire” dalla limitatezza degli spazi e della libertà del centro città, va alla disperata ricerca degli spazi vasti, del verde, del mare, delle spiagge, dell’Epomeo. E ha bisogno, questo “corpo di Napoli”, di espandere le proprie membra, la propria gestualità, i propri riti nell’isola più grande del Golfo. La popolazione residente dell’isola non gradisce e non vuole abituarsi (nonostante certi stilemi deteriori influenzino sempre più) ai modi di parlare, vestirsi, tatuarsi, gesticolare del “corpo” di Napoli e dell’entroterra napoletano e si limita a deridere o scandalizzarsi per il “cafonal” imperante. Poi, però, sopporta questi comportamenti sopra le righe, in nome del dio denaro che, comunque, questi napoletani portano. Ischia non è capace, per mancanza di idonei strumenti culturali, di capire le profonde motivazioni sociali, antropologiche, urbanistiche, psicologiche di questi fenomeni. E allora è inutile lamentarsi della bassa qualità del nostro turismo.
Per alzare il livello del turismo sarebbe necessario che, innanzi tutto, noi per primi migliorassimo il nostro livello culturale, civico, relazionale. Non basta non calzare, in estate, gli stivali sotto i pantaloncini corti o farsi un tatuaggio più sofisticato delle croci o dei teschi di certi prototipi della periferia napoletana. Il nostro grado di civismo ed educazione non è molto più alto di quello che condanniamo. Ma voi pensate veramente che possiamo puntare al turismo di qualità, quando un’albergatrice locale afferma in TV che sì, sarebbe contenta di un ritorno ad Ischia della Merkel, ma sarebbe molto meglio la presenza di Belen? Voi pensate veramente che possiamo puntare al turismo di qualità quando un giornalista locale afferma che, per quanto gli riguarda, la Colombaia può avere una destinazione qualsiasi (anche un bar o un ristorante), basta che la gestione non sia pubblica e che di Luchino Visconti “non se ne fotte niente nessuno”? E noi saremmo quelli che vogliono dare lezione di modernità, educazione e civiltà agli avventori del “corpo” di Napoli e della periferia? Gianni Vuoso invoca un “Comitato unitario” per salvare l’isola e i suoi tesori (Colombaia compresa), ma come si fa, se perfino una parte della stampa locale non è per niente sensibile a questi temi? Peppino Mazzella continua ad indicarci nella Programmazione lo strumento unico per la svolta della nostra isola. Ma affinché un Piano regolatore Generale possa davvero segnare il progresso (non solo “sviluppo” per dirla con Pasolini) della popolazione sotto tutti i punti di vista, a partire da quello culturale (scuole, infrastrutture, teatri, cinema, arte, storia) tale Piano dovrebbe essere confrontato con la popolazione, dovrebbe entrare nella “carne viva” della cittadinanza. Se la gente comune non lo “sente” proprio, ma viene calato dall’alto, non lo rispetterà e farà di tutto per minarne le basi. Orbene, tale “democratizzazione” del Piano Regolatore Generale è possibile solo in presenza di un popolo sufficientemente maturo, informato, partecipe, civile. Insomma, nel dilemma se nasca prima l’uovo o la gallina, l’educazione popolare, l’innalzamento del livello culturale medio, viene prima di ogni regolamentazione. Ergo, la “questione culturale” del Mezzogiorno, delle isole, dell’isola d’Ischia viene prima di ogni altra questione. Un esempio concreto di quel che dico: logica vorrebbe che, dopo il terremoto di Casamicciola, una Pianificazione generale disponesse la delocalizzazione delle abitazioni che insistono sull’area epicentrale del sisma. Poi ti accorgi che una parte significativa della popolazione (soprattutto persone anziane) non vuole allontanarsi dai luoghi di una vita, da un contesto che ha segnato, nel bene e nel male, la vita individuale e familiare; anche avendo coscienza dei pericoli sempre incombenti. Ciò significa che una Pianificazione non può trascurare le motivazioni psicologiche, antropologiche, culturali del contesto in cui si agisce. E che se ritieni improponibile costruire o ricostruire in quei luoghi, devi lavorare sulla coscienza, sulla psiche, sulla cultura delle persone. Non c’è nulla di semplice, di automatico, di scienza dell’economia e dell’urbanistica, in queste situazioni.
Torno al libretto di Walter Benjamin, che non si limita a descrivere la “porosità” architettonica di Napoli, ma la intravede anche nel modo di vivere e di comportarsi dei napoletani. “Porosità significa non solo, o non tanto, l’indolenza meridionale nell’operare, bensì piuttosto e, soprattutto, l’eterna passione per l’improvvisare. All’improvvisazione deve essere in ogni modo riservato lo spazio, deve essere sempre garantita l’occasione. I fabbricati sono usati come teatri popolari permanenti, le cui parti si dividono in una miriade simultanea di palchi animati: balconi, androni, pianerottoli, finestre, scaloni, gli stessi tetti – tutto è, insieme – palcoscenico e platea”. E, badate, Benjamin non aveva ancora assistito alla fase pandemica del Coronavirus a Napoli, dove tutta la teatralità descritta ha raggiunto l’apice. Ischia non ha offerto, negli ultimi decenni, scenari diversi a questa improvvisazione teatrale. Anziché esaltare ed offrire gli spazi aperti ed ameni, ha offerto spazi angusti più o meno analoghi a quelli che in estate i napoletani lasciano: case improbabili, bassi, che sembrano copiare i “palchi animati” del “corpo” di Napoli. All’improvvisazione cittadina abbiamo risposto con altrettanta improvvisazione. Alle gimkane delle moto nei vicoli di Napoli, abbiamo sostituito le gimkane di moto e bici elettriche nelle stradine e vicoli adiacenti le nostre spiagge. A sottocultura abbiamo risposto con sottocultura. La “porosità” del tufo giallo di Napoli trova perfetta corrispondenza nella “porosità” del tufo verde di Ischia. La differenza è solo nel colore e il verde è motivato dall’origine geologico-vulcanica della nostra isola, con l’immersione ed emersione delle nostre rocce nel mare. C’è addirittura chi sostiene che la definizione di “isola verde” derivi non dalla rigogliosa vegetazione bensì dal tufo particolare. Un altro scrittore, vivente questa volta, Erri De Luca, si è soffermato sulla singolarità del tufo e della porosità di Napoli e di Ischia. Ha scritto un libro intitolato “Tufo”, ricordando la sua casa d’infanzia a Monte di Dio. Ma Erri De Luca trovava d’estate ad Ischia l’ampliamento degli spazi angusti e di libertà. Per lui Ischia ha rappresentato la libertà. Ha scritto ancora nel libro “Aceto, Arcobaleno”: Da ragazzo, d’estate aspettando il mese di Ischia, freschi di promozione, andavamo a fare bagni sul litorale che scendeva verso il mare con banchi di tufo giallo e ruvido, pensando alle spiagge soffici dell’isola vicina”. Dovevamo essere capaci di registrarci sull’onda di anime sensibili come Erri De Luca; ci siamo invece “accomodati” ad offrire al turismo napoletano pressappoco lo stesso scenario dei vicoli e della periferia di Napoli. E il teatro continua…