IL COMMENTO La memoria di Auschwitz: un imperativo senza distinguo

DI LELLO MONTUORI

Vorrei celebrare un giorno della memoria senza i distinguo di chi, in fondo, non ha voglia di avere memoria. Senza i distinguo di quelli che non commemorano nè i sei milioni di ebrei morti nell’Olocausto nazista, né le vittime, tutte innocenti, di un secolo atroce, ma ne approfittano per ricordarsi a sproposito -proprio in questo giorno – di tanti altri morti, di altre pagine tristi della storia d’Europa e del mondo, perché pretendono- almeno a parole- di ricordare tutte le vittime, e finiscono col perseguire un solo risultato -forse non voluto- ma senz’altro prodotto, ossia che l’orrore si stemperi in quei luoghi comuni che i morti sono morti di tutte le parti. Che se si ricordano gli uni bisogna ricordare anche gli altri. Che anche gli uomini di Stalin, di Pol Pot e di Mao fecero i loro massacri. Giusto per citare quelli che più spesso si sentono indicare, sovente a sproposito, mischiando contesti, dittatori e regimi diversi. Così per fare colore. O che i liberatori, proprio i liberatori giunti per primi ad Auschwitz, hanno anch’essi i propri morti sulla coscienza e, in fondo, non sono migliori dei nazisti sconfitti. Vorrei un giorno della memoria per ricordare che l’annientamento degli ebrei nei centri di sterminio <<non trova nella storia altri esempi a cui possa essere paragonato, per le sue dimensioni e per le caratteristiche organizzative e tecniche dispiegate dalla macchina di distruzione nazista>>

Scrive così Frediano Sessi nella sua introduzione alla prima edizione di una delle più complete opere storiografiche sul tema dell’Olocausto, “La distruzione degli ebrei d’Europa” di Raul Hilberg, pubblicato in Italia per Einaudi 1995. Lo ripropongo. Senza aggiungere nulla. Anzi togliendo qualcosa. Rammaricandomene. Perché conoscere e anche commemorare significa sempre aggiungere qualcosa. Mai togliere. Aggiungere elementi di cognizione alla memoria. Mai sottrarne. <<Le nostre lacrime e le nostre sofferenze annegate in un oceano di parole! E’ il grido di un sopravvissuto di fronte all’inesorabile accumulo di narrazioni e di lavori storici sulla Shoah, l’annientamento degli Ebrei d’Europa. Quanto è accaduto nelle contrade del civile Vecchio Continente, tra il 1933 e il 1945, è sembrato fin dai primi momenti inimmaginabile, irriducibile alle parole. Nel corso degli anni, Elie Wiesel ha continuato a ribadire questo pensiero: “Auschwitz resiste agli sforzi dell’immaginazione e della percezione; si sottomette solo al ricordo (…). Tra i morti e noi che restiamo c’è un abisso e non esiste un talento capace di penetrarlo”. Gli uomini che vivono nella normalità, “non sanno che (nell’universo concentrazionario) tutto è possibile, -scrive David Rousset, -anche se le testimonianze spingono la loro intelligenza a comprendere, i muscoli, la carne oppongono un diniego (…), la morte abitava tra gli internati a ogni ora della loro esistenza”. C’è dunque una memoria del capire che resiste a una memoria del patire, laddove le parole sembrano non essere all’altezza di ciò che rappresentano.

Allora, è impossibile comprendere la Shoah? Se così fosse, l’annientamento nazista, col tempo, diverrebbe totale. Che ne sarà dei milioni di Ebrei, vittime dello sterminio se, venendo meno i testimoni, la loro storia diventerà un evento destinato al silenzio? O se, per contro, la proliferazione dei discorsi non farà altro che inscriverla nell’immaginabile –è questo l’incubo dei sopravvissuti-, votandola al destino di tutte le storie? Quando nel 1948 Raul Hilberg, giovane ventiduenne, studente di diritto pubblico e scienze politiche, comincia la sua ricerca, lo scopo che si prefigge subito è quello di “esplorare il meccanismo della distruzione”. C’è dunque uno spostamento del punto di vista: capire il come, se non è possibile comprenderne le ragioni, il perchè o trasmetterne il sentimento. (…). Persino a Norimberga, subito dopo la guerra, i crimini contro gli Ebrei costituirono una parte dell’istruttoria condotta dal Tribunale militare internazionale, ma non assunsero mai una posizione di primo piano. (…)Si dovrà aspettare il 1961, anno del processo Eichmann a Gerusalemme perchè un pubblico più vasto prendesse coscienza di ciò che si cominciava a chiamare Olocausto. Il 1961 è anche l’anno in cui appare la prima redazione di The Destruction of the European Jews. Hilberg privilegia i termini “annientamento” e “distruzione” ai più emotivi Shoah e Olocausto, e conduce la sua ricerca su un’approfondita lettura dei documenti tedeschi. Via via che il suo lavoro d’archivio procede, anche i materiali più freddi gli rivelano incredibili drammi umani, come ad esempio l’ordine di percorso n. 587 di un treno speciale tedesco. Grazie a esso, viene ricostruito il tragitto del convoglio fino a Treblinka, e il bilancio di questo “reperto amministrativo” consiste in più di mille Ebrei morti.

Ecco dunque la prima lezione di Raul Hilberg: seguire pazientemente il viaggio di un documento da un ufficio all’altro, all’interno di amministrazioni diverse, dal centro alla periferia del Reich e viceversa, fino a includere i territori occupati, le aree protette o incorporate, i Paesi satelliti e i governi fantoccio dei collaborazionisti. Un flusso enorme di lettere, decreti, progetti, sentenze, verbali, fatture, proteste e proposte, riunioni, corrispondenza confidenziale, elenchi di nomi, orari ferroviari, ordinanze di polizia, minute di conversazioni telefoniche ecc. senza tralasciare testimonianze, atti di procedimenti giudiziari, deposizioni, diari, appunti, stampa periodica: all’inizio una montagna di incartamenti, una babele di lingue e linguaggi, spesso in codice, da decifrare e incrociare, fino all’individuazione del processo completo, alla fine del quale la “soluzione finale del problema ebraico” poteva essere spiegata e descritta, nel suo graduale e progressivo evolversi. Hitler, il supremo artefice della catastrofe degli Ebrei, già nel 1961, era indicato nella prima redazione di “The Destruction of the European Jews”, per il ruolo centrale giocato nella “soluzione finale”: lui solo poteva prendere una simile decisione.

Stabilito questo, bisogna aggiungere anche che la burocrazia era prontissima a rispondere alle volontà del Fuhrer, come è dimostrato dalla rapidità con la quale si è messa in movimento. Il fatto che la distruzione degli Ebrei d’Europa si sia attuata senza finanziamenti, centralizzazione o pianificazione, indica una considerevole convergenza di pensiero all’interno dell’apparato amministrativo del Terzo Reich. Il processo di messa a punto della distruzione degli Ebrei occupò solo alcuni mesi (…). Si aggiunga poi che, al contrario di quanto accade per il comunismo, l’ideologia non ha mai giocato un ruolo primario nel nazismo. (…) Alla domanda, perchè la macchina burocratica nazista non si fermò, anche solo per un breve istante, per interrogarsi sulla fondatezza di quella decisione “finale” (dobbiamo proprio uccidere realmente tutta questa povera gente?); a questa domanda, nessuno può rispondere”. Probabilmente, prosegue Hilberg, la decisione venne presa tra il febbraio e il settembre del 1941. “E’ al termine di un lungo processo mentale che Hitler, alla fine, arrivò all’idea di uno sterminio totale del popolo ebreo. Sappiamo che quando Bormann, in piena guerra, chiese come avrebbe fatto la Germania a trasferire gli Ebrei nel Madagascar, Hitler replicò che si rifiutava di esporre la sua flotta al bombardamento britannico e che, per questo motivo, ormai vedeva quell’affare sotto un diverso angolo di visuale “con molta simpatia in meno degli Ebrei”. E’ anche qui che si deve ricercare la genesi della “soluzione finale”. Sappiamo che verso la fine dell’estate 1941, Eichmann fu convocato nell’ufficio di Heydrich, il quale lo informò che “Hitler aveva ordinato lo sterminio fisico degli Ebrei”. Heydrich, racconta Eichmann, era visibilmente agitato” . Per capire il processo che conduce alla soluzione finale, dunque, “Hitler è effettivamente indispensabile”. Himmler giustificava l’urgenza di sterminare gli Ebrei per il fatto che, nella storia mondiale, non ci sarebbe mai stato un altro Adolf Hitler. Non c’era tempo da perdere. Tutti gli storici, oggi lo riconoscono. “Essi, tuttavia, considerano il Fuhrer più come un simbolo che come un attore. Per quanto mi riguarda, Hitler rimane l’attore principale, nella misura in cui è stato lui a premere il bottone per cambiare il semaforo da rosso a verde. Rimane il fatto che si trattava soltanto di dare il via a una corsa alla quale erano già pronte le diverse istanze burocratiche. (…)

E’ folle credere che tutti gli uomini obbediscano solo a degli ordini. Per dar seguito a un ordine, bisogna anche volerlo. Questa posizione, è carica di insegnamenti. In particolare, dimostra che la discesa nella barbarie non è mai ascrivibile a qualche umana fatalità, ma, insieme, che non ci sono collaboratori innocenti e la scelta di parte vale per gli esseri umani come per gli Stati. Nello specifico della nazione tedesca, si può parlare oggi di un consenso popolare in favore della “soluzione finale”? “Coloro che si sono opposti al processo, costituiscono una minoranza – sottolinea Hilberg. L’unicità del lavoro di Raul Hilberg emerge anche dalla lucida registrazione del ruolo che le vittime ebbero nel loro processo di distruzione. Egli sottolinea in più punti come, pur essendo chiara e innegabile la responsabilità schiacciante e prioritaria dei nazisti, il loro compito fosse facilitato dalla generale passività degli Ebrei che, come la maggior parte dei popoli (governanti inclusi) non compresero le caratteristiche innovatrici e “rivoluzionarie” dell’impresa nazista; da cui, l’incapacità di reagire alla minaccia. (…). Ebbene i Tedeschi avevano molti punti deboli. Il problema vero sta nel chiedersi come riuscirono a commettere un crimine fino a tal punto mostruoso con così pochi mezzi, materiali e umani. Consideriamo i centri di sterminio: solo 92 militari tedeschi lavoravano a Treblinka, Sobibor e Belzec, più alcune centinaia di Ucraini. Novantadue Tedeschi nella Polonia occupata riuscirono a uccidere, in quei tre centri di sterminio, quasi un milione e mezzo di Ebrei.(…)

Come accadde a molti altri –prigionieri russi compresi- gli Ebrei non capirono che si trattava di un processo, vale a dire di una somma di azioni miranti a un obiettivo, e non di singoli atti di barbarie. Così i dirigenti ebrei, per lo più tentarono di addomesticare i Tedeschi come si fa con gli animali selvaggi. In questo, spiega Hilberg, non furono ottimisti esacerbati ma “adottarono un atteggiamento di wishful thinking”, vale a dire, si convinsero via vai che era vero ciò che loro desideravano intensamente, e dunque di poter sopravvivere anche se in realtà non ce n’era la possibilità. “Fino ad allora gli Ebrei avevano pagato per ottenere protezione, avevano saputo mercanteggiare la loro salvezza” . Dalla ricerca di Raul Hilberg emerge anche un terzo protagonista: lo spettatore. (…)Ne emerge anche una storia dell’inerzia, dell’indifferenza, dell’insensibilità costruita attraverso alcune risposte a domande quali: che cosa si sapeva? Chi e dove (geograficamente e in quali sedi istituzionali?) (…)per il lettore e il ricercatore, questo nuovo soggetto della storia, (lo spettatore) è una figura carica di significato. Forse restituisce il corso dell’evento a nuove possibilità di indagine e lo riconduce a una più complessa e articolata lettura della responsabilità individuale che ci consente di ripercorrere l’adagio caro a Tolstoj, secondo cui sono i singoli, con le loro scelte, che fanno la storia e ne mutano il corso.(…). Quello che in Italia siamo abituati a chiamare Olocausto, costò la vita a un numero di vittime tra i cinque e i sei milioni di persone, due terzi della popolazione ebraica europea e un terzo di quella mondiale. Il Tribunale di Norimberga, nella sua sentenza definitiva, parla di sei milioni di Ebrei assassinati. “Si ritiene in genere che quattro milioni siano morti nei campi e due altrove: perlopiù vennero fucilati in territorio sovietico o perirono di fame e di malattia e nei ghetti dell’Europa orientale”. Nei conteggi di vari studiosi -fondati su fonti naziste o filonaziste- si possono scorgere molte riserve che porterebbero ad aumentare o a diminuire il dato globale. “Tra le valutazioni di tutti gli studiosi più autorevoli degli ultimi decenni, quella di Raul Hilberg è la più cauta”. Anche in questo egli si rivela fortemente ancorato a quella che Hannah Arendt chiama la “verità di fatto” quella verità che insieme illumina l’intelletto umano e informa le opinioni, in modo trasparente, per sua stessa natura. Un mezzo, tra gli altri elencati in questa breve nota, per impedire che in futuro cada il silenzio sullo sterminio del popolo ebraico e sulla barbarie del nazismo. E se resterà difficile conoscere perché il processo della distruzione degli Ebrei è accaduto, la conoscenza delle modalità con cui esso ha tratto origine e si è mosso verso la realizzazione del suo scopo finale, forse, ci aiuterà a impedire che accAda di nuovo.

Quanto alle ragioni per le quali il 27 gennaio si commemorano le vittime dell’Olocausto nazista e non quelle di Stalin e di Mao, che piaccia o no, basti questo:la legge 20 Luglio del 2000 n.211 di “Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”, contiene agli articoli 1 e 2 le finalità e le celebrazioni del Giorno della Memoria: «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere>>. Non c’è altro.

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