LE OPINIONI

IL COMMENTO Il valore del passato

DI ELENA WHITEHEAD

Nella ripresa che si sta avviando, credo che sia giusto rivolgere anche uno sguardo al passato per avere utili consigli ed evitare imperdonabili errori. Non occorre, però, andare molto lontano. È sufficiente partire dal secolo scorso, quando reduci dal devastante terremoto di fine ottocento, speravamo di vivere giorni tranquilli che ci consentissero un po’ di benessere. Arrivarono, invece, sfide ben più impegnative, come l’epidemia di spagnola, la prima e la seconda guerra mondiale ed un’incontenibile miseria che induceva a mangiare tutto ciò che poteva diventare commestibile. Tuttavia, anche questa volta, la tenacia umana ebbe la meglio e passo, dopo passo, ci ritrovammo a ridosso dei favolosi anni sessanta. Mentre, in buona parte d’Italia, ci si avviava al “boom” economico, nella nostra Isola sussistevano diverse zone occupate dalle baracche che accoglievano i terremotati del 1883 e i lori discendenti.

Esse avevano dato sicuro rifugio a quanti erano nati e cresciuti in abitazioni di muratura, sia che si trattasse di ville, di case coloniche o di palazzi costruiti nel passato e perfino, di catapecchie. Per chi nel terremoto aveva perso la casa, le baracche furono accolte con grande sollievo anche perché erano state collocate in luoghi lontani dall’epicentro sismico ed in zone salubri e piene di sole. Qui le donne, per lo più massaie operose, si confrontavano fra loro nei piccoli, grandi problemi della vita. Si aiutavano, si curavano, si rintuzzavano anche, spesso litigavano ma, poi, alla fine, nessuna avrebbe mai fatto male all’altra. Avere una baracca per chi voleva sposarsi e formare una famiglia, era come possedere una villetta. C’erano, persino, i servizi igienici che prima del terremoto, anche nelle migliori abitazioni, erano pressoché inesistenti e per chi aveva un giardino, si riducevano ad un palo conficcato tra due “parracine” ad angolo. Per giovani innamorati, si trattava di avere l’idilliaca posizione di due cuori ed una capanna. Le differenze sociali erano poco presenti e soprattutto per i ragazzi, non erano argomento comprensibile. Quelle baracche erano il nido di giovani famiglie che spesso ospitavano nell’unico ambiente anche la nonna. Erano i tempi delle famiglie patriarcali, quando si augurava alla coppia di sposi di stare in armonia come San Giuseppe e la Madonna. Il padre ere colui che lavorava e portava il salario nelle mani della moglie. Pochi o molti, quei quattrini, venivano gestiti dalla saggezza femminile. Si diceva, infatti, che “una donna garbata, da un soldo ne fa due”.

Quasi sempre, la mamma non aveva un lavoro esterno e trascorreva le giornate dedicandosi a crescere, insegnare ed amare la sua numerosa famiglia, dove i fratelli più grandi aiutavano i piccoli. Lì, veramente, la prima educazione si apprendeva sulle ginocchia della madre che baciando, abbracciando e carezzando iniziava alla vita. Beato, chi passando, poteva sentire le garrule voci di tanti bambini in casette che erano una culla d’amore, in una primavera, senza altre stagioni. La mamma era l’angelo del focolare. Tutto sapeva, per ogni domanda c’era sempre una sua risposta. Ogni mamma sapeva cucinare, cucire, fare il bucato, ricamare, stirare e lavare le sue creature. Tutti i figli erano signori e principi. Non esisteva l’invidia, né l’arrivismo sociale. La casa era quel nido d’amore dove si imparava la pietà. I letti straripavano di bimbi e nessuno diceva all’altro: “fammi stare più largo”, ma spesso vi dormiva anche il cugino venuto da lontano. Per giocare, i bambini avevano i vicoli che erano più belli dei viali di una reggia ed anche più sicuri, perché in ciascuno di essi, c’era una mamma, una sorella maggiore, una zia che spazzando e lavando giravano intorno. Nella tarda mattinata, la casa era già rassettata. I letti rifatti, avevano tutti, come nota di grazia, una bambola al centro. Con gli anni, ciascuno dei bimbi ha preso una strada. È andato lontano. Ha la sua dignità, sa essere onesto, conosce il mestiere. Molti hanno case con balconi e giardino, ma non c’è gioia più grande che passare ancora una volta in quei posti divini. Lo sguardo si appanna per tanti ricordi. Quel posto, per loro, è davvero speciale! Ciascuno guardando lo spazio dei giochi si ferma a pensare.

Rivede le zolle, il palo di corda, il vico del “Barone”, le more, gli scarponcini, la messa in posa, la gallina, le zie Ntunetta e Giacumin, “ze Restut”, Ngiulin e Maria, Maculatina e Colangiul, Giusepp u sciaffer, don Peppe u canciellier, Nunziatin u carbunier, Colomba, Carmel e Magascion, “zi Pietr”, Caterin e Vicienz a Veronc, Ntunett a Cantener e Peppnell, Ciabbattist, Nannin e Lisett, Nannin u cafttier, Marittina, Fanfarron, Fafel, Nannina e Aurelio, mast’Apoll. E ancora, ancora! Nel mentre, una dolcissima voce echeggia nell’aria. È quella di sempre che dice, soave, col piglio di mamma: “la madonna ti accompagni”. Tutto ciò stride con l’arrivismo sociale di gran parte dei nostri giovani che guardandosi intorno, hanno recepito il messaggio: “che più si ha e più si è”. E no! “Qui casca l’asino!”. “Signori si nasce”, diceva Totò. Quelle madri del dopoguerra così vicine alle madri dell’Antica Grecia che la tradizione ci ha fatto conoscere, hanno saputo educare i cittadini che con o senza laurea posseggono la dignità, la lealtà, la pietà e l’altruismo. Ai nostri giorni, sono forse mancate le madri di un tempo, perché i ritmi attuali della vita fanno sì che entrambi i genitori debbano contribuire al bilancio familiare ed è giusto che la donna possa sentirsi realizzata anche professionalmente.

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Ma a ben guardare, le mamme non c’entrano troppo. In quanto educatrici per natura, non hanno bisogno di lunghi sermoni, ma sanno parlare con lievi sussurri e piccoli gesti ai loro bambini. Il problema è radicato nel cuore dell’uomo e prende vigore nel nostro presente, coinvolgendo in modo indistinto persone di tutte le età. E se ancora di giovani vogliamo parlare, per loro, c’è l’educatrice di sempre, la Scuola, che oltre alle varie discipline, dovrebbe essere più incisiva nell’attingere a quel tesoro formativo che da millenni possiede. Far presente, ad esempio, che “il saggio porta sempre con sé tutti i suoi beni perché le virtù dell’animo non si alienano mai”. Volendo dire che l’uomo vale per sé, per il suo arricchimento interiore che gli insegna a vedere nell’altro chi necessita di un consiglio, di un po’ di coraggio, di una sola parola che gli addolcisca le pene. Così facendo, si sente felice e se guarda negli occhi chi grato gli porge il saluto, ne coglie la stima. Ma non è però facile uno stile di vita morigerato in un mondo dove tutto si avvolge a spirale intorno al potere: “occorre possedere per farsi valere”. Non c’è sosta che tenga! per quanto si sale, c’è sempre da fare un altro gradino. Siamo i forzati dell’apparire. Possedere per farsi valere o valere per possedere? In ogni caso è il “soldo” che tira il carretto. E se restiamo sui soldi qualcuno sussurra: “è di facile approccio, ci serve al bisogno”. Spesso, nel perfetto saluto di chi si scappella, sembra sentire: “guarda, guarda il magna magna”.

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