Quando vieni da Napoli con la nave ed arrivi nei pressi di Procida, la prima cosa che colpisce la tua vista è il Palazzo D’Avalos. Insieme al promontorio di Terra Murata, su cui sorge, si presenta come un enorme cetaceo che emerge dall’acqua limpida con orli di schiuma bianca sul nero della roccia, emersa dal mare qualche milione di anni fa. Man mano che la nave si avvicina e vi passa più sotto, scorgi, sempre più nitida, la massa grigia della costruzione, dall’aspetto torvo e severo, con le sue finestre a “bocca di lupo”, residuo e testimonianza del suo passato carcerario. Se vai con una barca sotto le sue mura vieni colpito dalle grida rauche e stridule dei gabbiani che ti portano alla mente antichi lamenti di carcerati che sfogavano nel canto il dolore per la libertà perduta. Oppure questo cantare di fronte al mare poteva esser un modo per chiedere perdono per il delitto commesso. Chissà! Non lo sapremo mai. E la tua mente vaga, nella luce del mattino o nell’oscurità complice della sera, sulla vita passata di questo palazzo. E ti viene una voglia irrefrenabile di entrarci dentro, di assorbirne gli odori, i suoni, le immagini, ormai spenti ed entrati di prepotenza nella storia. Già la storia! Questa gronda copiosa dalle pareti, dagli archi delle porte, dai pavimenti sconnessi, dalle fessure nei muri aperte dal tempo e dal degrado. E’ una storia quasi sempre triste, tragica, sporca di sangue, ma è la nostra storia, la storia d’Italia.
Ma anche la storia vera e propria del palazzo è una storia tribolata. Fu costruito, nella seconda metà del ‘500, dal cardinale Innico D’Avalos, feudatario di Procida come sua residenza. Questo cardinale, dopo l’andata via da Procida dei Benedettini che reggevano la vicina Abbadia di S. Michele, assunse nella sua persona la carica di unica autorità civile e religiosa dell’isola. Oltre a costruire il palazzo il Cardinale edificò anche le mura di difesa dagli attacchi barbareschi del borgo della “Terra casata” che da allora si chiama “Terra murata”. Si può affermare che dai tempi del cardinale D’Avalos questa zona di Procida sia rimasta tale e quale. Passeggiare per le sue viuzze dai nomi impossibili, via Guarracino, via Papere ed altri, ti da la sensazione di un tuffo nei secoli passati, ti pare quasi di udire dai vari pertugi delle case le grida dei corsari barbareschi che sciamano con le spade sguainate per uccidere e rapire. Tempi di terrore erano quelli! Per fortuna oggi non è più così. Ne abbiamo fatta di strada! Il Pazzo D’Avalos dopo un paio di centinaia d’anni, passò, pare per debiti, ai Borboni. Al cardinale, vero principe del Rinascimento, piaceva spendere e godersi la vita. Carlo III di Borbone ne fece una sua residenza reale, elevandolo al rango di reggia. Si trasferiva a Procida, bene “allodiale”, vale a dire proprietà personale della Corona, con tutta la corte per le sue partite di caccia. Quando questi fu chiamato sul trono di Spagna il suo posto venne preso dal figlio Ferdinando IV che continuò nelle stesse abitudini del padre. Alla morte di questi salì sul trono di Napoli il figlio Ferdinando II che aveva un po’ il dente avvelenato contro i Procidani, Perché? Chiederete voi. Perché questi, nel 1799, quando sul trono c’era il padre Ferdinando IV, parteciparono in parte per la Repubblica partenopea, creata a Napoli dai giacobini locali in combutta con quelli francesi. La reazione borbonica, supportata dagli Inglesi, fu terribile: solo a Procida furono impiccate, il primo ed il 15 giugno del ’99, nella piazza di Sèmmarezio, quindici persone. E furono le prime in tutto il regno. Salito sul trono, Ferdinando II decise che il palazzo D’Avalos diventasse carcere regio. E così nel 1830 divenne un penitenziario. Bella la carriera di questo palazzo! Da reggia a carcere. Ora, dico io, non c’erano altri posti nel Regno, anche più idonei, ove poter impiantare una casa penale, senza marchiare con una sorta di bolla d’infamia uno dei siti più belli del mondo? Questo carcere ha funzionato ininterrottamente dal 1830 fino al luglio 1988 ed il sottoscritto vi ha lavorato, come medico, gli ultimi venticinque anni. Lo conosco come le mie tasche, anzi…forse meglio. Ha tenuto prigioniero tra le sue mura, spesse uno, due metri, tutto il gota della delinquenza italiana degli ultimi centocinquant’anni. Non solo! Ma, subito dopo l’ultima guerra, tutti i “capi” del regime fascista, da Graziani a Junio Valerio Borghese, a Teruzzi, Cassinelli, Del Tetto ed altri. Da meno di dieci anni lo Stato lo ha trasferito al Comune di Procida che spera di farne la punta di diamante del suo sviluppo turistico. Basterebbe prendere in esame solo questa struttura, le cui pareti trasudano della storia nazionale, umana e politica, per stimare Procida degna di diventare “capitale della cultura”.