IL COMMENTO Il diritto delle genti e la Sea Watch
DI LELLO MONTUORI
Perché in punto di diritto la Comandante della nave Sea Watch 3, Carola Rackete che ha deciso di non rispettare il divieto di ingresso nel mare territoriale italiano e portare i migranti soccorsi il 12 giugno scorso verso un porto sicuro per lo sbarco, ha agito legittimamente nell’adempimento di un dovere. «Nonostante la si accusi ora di aver violato le leggi dello Stato italiano, e in particolare il divieto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina previsto dall’art. 12 del d.lgs. 186/1998 e il divieto di ingresso imposto dal Ministro dell’Interno sul fondamento del DL 53/2019, c.d. sicurezza-bis, la comandante Rackete, fin dall’inizio dei soccorsi, non ha fatto altro che rispettare un obbligo imposto dal diritto internazionale e dalle leggi sia italiane sia del suo stato di bandiera». Così ha dichiarato Francesca De Vittor, Docente di Diritto internazionale e diritti dell’uomo alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica. Una che il diritto delle genti lo conosce un po’ più dell’italiano medio. Senz’altro di più del Ministro dell’Interno. Infatti “ciò che in tutta questa vicenda appare manifestamente illegittimo, sia dal punto di vista del diritto costituzionale italiano sia del diritto internazionale è proprio il c.d. decreto sicurezza bis”.
A questo penserà il giudice delle leggi. Qualsiasi interprete del diritto e chi della verità -almeno di quella giuridica- vuole essere appena timido amico, sa bene che «l’obbligo di soccorso in mare è previsto sia dal diritto internazionale consuetudinario (che nel nostro ordinamento ha valore di diritto costituzionale in base al rinvio operato dall’art. 10 Cost.), sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM) e dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR) (entrambe ratificate dall’Italia e che nel nostro ordinamento hanno valore di legge, anzi superiore alla legge per l’art. 117 Cost.). Per previsione espressa di quest’ultima Convenzione il soccorso si conclude solo con lo sbarco delle persone in un porto sicuro, che è un porto in cui la loro vita non è più in pericolo e i diritti umani fondamentali sono loro garantiti». Non occorre invece nessuna laurea in giurisprudenza e tanto meno una cattedra universitaria per capire che l’unico porto di sbarco indicato alla Sea Watch 3, ossia il porto di Tripoli, sia un porto in cui nessuno sbarco di migranti può lecitamente aver luogo in ragione delle gravissime violazioni dei diritti umani fondamentali che i migranti subiscono in Libia, nonché del conflitto in corso. La Libia infatti non può essere in alcun modo considerata un porto sicuro come emerge con chiarezza dalla Raccomandazione agli Stati membri della Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa, la bosniaca Dunja Mijatović, dall’eloquente titolo «Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean».
Peraltro come deciso dal GIP di Trapani nella recente sentenza 23 maggio 2019 (dep. 3 giugno 2019), Giud. Grillo Caso VOS-THALASSA – sulla legittima difesa da parte dei migranti che si erano ribellati all’ ordine di rientri in Libia – l’essere riportati in Libia avrebbe costituito un’offesa ingiusta alla quale i migranti stessi avrebbero potuto opporsi anche con la forza in legittima difesa (art. 52 c.p.). La sentenza definisce, in sede di giudizio abbreviato, la nota vicenda dei migranti che nel luglio 2018 si erano opposti con la minaccia dell’uso della forza al loro rimpatrio in Libia da parte della nave commerciale italiana che li aveva soccorsi, costringendo il capitano della stessa ad invertire la rotta e condurli verso le coste italiane. Il Tribunale ha riconosciuto in capo ai due migranti individuati dalla pubblica accusa come capi della ribellione – e in tale veste chiamati a rispondere in concorso dei reati aggravati di violenza o minaccia e resistenza a pubblico ufficiale (artt. 336, 337 e 339 c.p.) e di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare (art. 12 co. 3 d.lgs. 286/1998) – la causa di giustificazione della legittima difesa. La sentenza si sviluppa dunque intorno all’analisi circa la sussistenza dei diversi requisiti posti dall’art. 52 c.p. a fondamento della legittima difesa. L’attenzione si concentra innanzitutto sul “diritto posto in pericolo”. Il Tribunale ricorda come i diritti che sarebbero stati posti in pericolo dal rinvio dei migranti in Libia (il diritto alla vita e all’integrità fisica) “sono diritti assoluti che spettano alla persona in quanto tali” , e trovano fondamento nell’art. 2 Cost. e in una vasta serie di fonti sovranazionali, tra cui in particolare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il Tribunale passa poi ad analizzare “le norme internazionali sulla questione della ricerca e del salvataggio delle persone in mare”, ed individua nella Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, nella Convenzione di Londra per la salvaguardia della vita in mare del 1974, e soprattutto nella Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio in mare (SAR) del 1979, i testi fondamentali di riferimento, da cui emerge “un obbligo di salvataggio in mare della vita umana”, obbligo che a sua volta comporta il “dovere di individuazione di un porto sicuro dove sbarcare le persone”. Proprio la nozione di “porto sicuro” è oggetto di uno scrutinio particolarmente attento da parte del Tribunale, che sottolinea come “laddove le persone soccorse in mare, oltre che ‘naufraghi’, si qualifichino – in termini di status – anche come ‘migranti/rifugiati/richiedenti asilo”, soggetti quindi alle garanzie ed alle procedure di protezione internazionale, l’accezione del termine ‘sicuro’ (riferita al luogo di sbarco) si connota anche di altri requisiti, legati alla necessità di non violare i diritti fondamentali delle persone, sanciti dalla norme internazionali sui diritti umani (…), impedendo che avvengano ‘sbarchi’ in luoghi ‘non sicuri’, che si tradurrebbero in aperte violazioni del principio di non-respingimento, del divieto di ‘espulsioni collettive’, e, più in generale, pregiudizievoli dei diritti di ‘protezione internazionale’ accordati ai rifugiati e richiedenti asilo”.
Orbene ritornando al caso della Sea Watch, una volta chiarito che verso Tripoli la nave non avrebbe in alcun caso potuto dirigersi, la comandante si è lecitamente risolta a volgere la prua verso il porto sicuro più vicino, e quindi Lampedusa. Tutti gli stati membri della Convenzione SAR hanno l’obbligo di cooperare affinché il comandante della nave che ha prestato soccorso sia liberato dalla propria responsabilità (ovvero possa far sbarcare le persone soccorse) nel minor tempo possibile e con la minor deviazione dalla propria rotta. L’aver individuato Lampedusa come luogo di sbarco costituisce quindi non solo un comportamento legittimo, ma anche il più ovvio da parte della Comandante che aveva una legittima aspettativa di vedersi assegnare lì un luogo di sbarco. Starà poi alla magistratura italiana valutare eventuali responsabilità penali a carico della comandante e dell’equipaggio della nave, ma è presumibile che anche qualora eventuali comportamenti in violazione di legge siano stati posti in essere, venga comunque riconosciuta la scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.) o dell’aver commesso il fatto in adempimento di un dovere (art. 51 c.p.). Va in ogni caso ricordato che in nessuno dei casi in cui sono state aperte indagini a carico di Ong per i soccorsi in mare, si è mai giunti a una condanna: quando i giudici si sono pronunciati hanno sempre considerato legittimo il comportamento di chi aveva prestato il soccorso in mare.
«Se di responsabilità si vuole parlare, sarebbe meglio parlare di quelle dell’Italia. Va infatti considerato che la nave, probabilmente già da prima, ma sicuramente da quando è entrata nelle acque territoriali italiane, si trova sotto la giurisdizione dell’Italia per l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, pertanto il prolungarsi del trattenimento a bordo della nave dei migranti, già estremamente provati, integra da parte dello Stato italiano una violazione dell’art. 3 e dell’art. 5 della Convenzione e su questa conclusione non incide il rifiuto della Corte di imporre all’Italia misure cautelari ed urgenti, tale pronuncia, infatti, non è sul merito della vicenda ma appunto solo sulla misura cautelare». In un periodo in cui le fondamentali norme dell’ordinamento internazionale e costituzionale sono sempre più spesso violate da politiche di ostacolo alle operazioni di soccorso in mare, politiche poste in essere addirittura dai Governi di paesi democratici, il rispetto dei diritti umani è fortunatamente ancora presidiato dai Giudici e dagli interpreti. L’ultimo argine rimasto alla barbarie.
Grande Lello