Il mio giovane amico Raffaele Morelli, filosofo oltre che editorialista del Golfo e organizzatore del Festival Internazionale della Filosofia, ha scelto come tema della prossima edizione (la nona, dal 1 al 24 settembre) il “desiderio”. Per ampliare la ricerca filosofica sul tema, ha indetto una call for papers i cui termini di scadenza sono stati prorogati oltre l’iniziale 16 aprile, per non strozzare la partecipazione di pensatori. Si va, insomma, alla ricerca di pensatori, anche a distanza, che vogliano contribuire ad approfondire che cosa sia il “desiderio”. Il Festival prevede anche una campagna di sensibilizzazione, che sarà condotta dai giovani , dal titolo “Polvere di stelle, un desiderio condiviso”, una pedagogia del desiderante e del desiderato. Stimolato da questa provocazione intellettuale, ho letto, con particolare attenzione, quello che in merito o nei “dintorni” è stato di recente scritto da intellettuali italiani di grande spessore. Incominciamo dallo scrittore e insegnante di Lettere, tra l’altro ancora giovane (46 anni) Alessandro D’Avenia. Ha scritto, pochi giorni fa, nella sua rubrica “Ultimo banco” sul Corriere della Sera: “Il proprio del desiderio è non avere nulla di proprio , perché vuole l’infinito e mai sarà colmato da un qualche finito o dalla somma di tantissimi finiti: l’infinito vuole l’infinito. Il desiderio, mancanza che rende inquieti è però ciò che rende inesauribile ogni aspetto della realtà, ma purtroppo una cultura (l’iperconsumismo odierno n.d.r.) che ripete < la vita fa schifo, non ci pensare, divertiti e consuma> anestetizza il desiderio e quindi la gioia”. Dopodiché D’Avenia, nel tentativo di trovare una via d’uscita dal torpore in cui il consumismo ci getta, propone l’ancora di salvezza della “bellezza”. “Desiderio e bellezza appartengono allo stesso ordine di realtà, che precede ragionamenti e quindi possibili inganni”. D’Avenia lo ha scritto in occasione della Pasqua e Pasquetta, quando si è recato in montagna, a oltre duemila metri di altezza e, coricatosi su un prato, ha ammirato i “crochi”, fiori di montagna: “apparivano infinite iridi bianche e viola nell’erba muta e ingrigita dal peso dei mesi invernali”.
Sarà un caso, ma il Festival di Mirelli, edizione 2022, era incentrato sulla “Bellezza” e per il 2023 sul “Desiderio”. Se rileggete le righe precedenti, troverete che il consumismo spegne – oltre che il desiderio – la gioia che ne consegue. E “gioia” è un termine che ci porta ad un altro intellettuale, da inserire nel Pantheon di chi ama il pensiero profondo: lo psichiatra Vittorino Andreoli che, nel suo recente libro “Lettera a un vecchio, da parte di un vecchio” dice di odiare il termine “felicità” perché riguarda l’io e l’individualismo, mentre egli ama il termine “gioia” che riguarda il “noi” e tutto il contesto che ci circonda. Saltiamo poi al grande archeologo e studioso dell’arte classica, Andrea Carandini (già presidente del FAI) che parla dei motivi del nostro “scontento”. La “scontentezza” non è il polo opposto della felicità, ma alla gioia. Il motivo lo abbiamo detto: felicità è un fatto egoistico e individuale, gioia è un fatto “sociale” e condiviso; allo stesso modo, la scontentezza è un disagio di molti, di una collettività, non di un singolo individuo. E Carandini, commentando il libro “Scontenti, perché non ci piace il mondo in cui viviamo” dell’intellettuale di destra Marcello Veneziani, dice che stiamo attraversando la freddezza di “L’inverno del nostro scontento” (ricordate il libro di John Steinbeck?). Ritorniamo di nuovo al consumismo, al “desiderio indotto” dal turbocapitalismo. A chi ama e vuole approfondire sociologia ed economia, consiglio la lettura del libro “Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo” (2007) di Gilles Lipovestsky, filosofo e sociologo francese dell’Università di Grenoble, ex sessantottino di Francia. A proposito della crescente insoddisfazione che crea l’iperconsumismo egli scrive: “Si consuma di più ma si vive di meno, più si scatenano gli appetiti per l’acquisire e più si approfondiscono le insoddisfazioni individuali, Smarrimento, delusione, disillusione, disincanti, noia, nuova povertà”. E cita il mito greco di Penia (povertà), la dea che, venendo a mendicare alla fine di un banchetto, giace amorosamente con un incosciente e ubriaco Poro, dalla cui unione è generato Eros, Dio dell’Amore. Solo che, a differenza del mito, il consumatore che ambisce alle ricchezze del banchetto della società dei consumi, non genera Amore ma “ dis-amore” per gli oggetti stessi desiderati e subito poi abbandonati. Siamo scontenti perché vogliamo tutto e subito e “bruciamo” gli oggetti desiderati in un lasso di tempo brevissimo. E’ così che funziona il consumismo: “ desidera, consuma e butta!”.
Vista dall’ideologo di destra Marcello Veneziani e dallo stesso Carandini, la scontentezza sottrae terreno all’identità di un popolo e di un Paese, di una Nazione, in quanto la rincorsa irrefrenabile a oggetti precari toglie ogni riferimento, ogni certezza. E se siamo “rapaci” nei nostri desideri, se siamo “voraci” nel consumare gli oggetti dei nostri desideri, diventiamo (come ormai siamo) arroganti, prepotenti e pretenziosi. E qui si innesta l’ultimo “grande vecchio” dell’intellettualità italiana: lo psichiatra Eugenio Borgna (92 anni), il cui ultimo libro è intitolato “ Mitezza”. L’antidoto all’arroganza voluttuosa, verbale e a volte fisica dei “turboconsumatori” è la Mitezza, la pacatezza. Borgna, parafrasando i Vangeli, dice: “Beati i miti, perché la mitezza è la stella del mattino”. Senza di questa, noi uomini reagiamo in due modi: o siamo violenti e prevaricatori e ignoriamo i dolori e le sofferenze degli altri o (ma non è molto meglio) cadiamo nell’ indifferenza, nell’isolamento dagli altri. La mitezza, dice lo psichiatra, è contagiosa, è talmente bella e produttiva di soddisfacenti relazioni umane da moltiplicarsi e coinvolgere i nostri simili. Anche il filosofo Norberto Bobbio sottolineava l’importanza della mitezza che è attiva, a differenza della mansuetudine che è passiva. Borgna ritiene che la mitezza può anche essere insegnata. A scuola, ad esempio, attraverso in particolare la poesia, che è mite per definizione. ma si riesce anche attraverso la letteratura e la cinematografia e cita il film di Robert Bresson, tratto dal libro di Dostoevskij “La mite”.
Dopodiché sono andato a riprendere e leggere La Mite di Dostoevskij, che è la storia di una donna che si suicida. L’ho fatto per il “desiderio” di disintossicarmi dall’odio quotidiano che sprizza da tutti i pori dei moderni canali informativi e social. Non sono andato, come D’Avenia, a quota duemila metri, per ammirare i “crochi” ma mi sono affacciato al balcone di casa mia, dove ho potuto godere la “mitezza delle piante grasse” e il profumo del semplice basilico, col quale condiamo il pane e pomodoro. Questo è “desiderio” che arricchisce e non stordisce, questo è “joie de vivre”, questo contribuisce a lenire l’inverno del nostro scontento.