LE OPINIONI

IL COMMENTO Giovani che se ne vanno e che restano a Ischia

E’ sotto gli occhi di tutti gli isolani che sempre più giovani se ne vanno da Ischia e, nella maggior parte dei casi, sono i migliori e ben pochi ritornano per restituire e donare all’isola il bagaglio di conoscenze ed esperienze accumulate altrove. Ad essere più precisi, useremo il linguaggio adoperato dall’antropologo Vito Teti nel suo ultimo libro: “Pietre di pane – Un’antropologia del restare”. Ci sono giovani “erranti”, giovani “restanti” e giovani “ritornanti”. E, a proposito di antropologia, dovremmo tutti convincerci che per comprendere come la società ischitana va rapidamente evolvendosi (o involvendosi, secondo i punti di vista) occorre servirsi delle scienze sociali, molto sottovalutate dall’opinione corrente, divisa tra nostalgici del marxismo (e quindi del valore assoluto ed esclusivo dell’economia) e sostenitori del turbo capitalismo (incuranti delle motivazioni sociali,culturali e ). Questa sottovalutazione delle scienze sociali si traduce nell’incapacità di comprendere i motivi della forte emigrazione giovanile, in particolare di quella più scolarizzata, o i motivi di chi decide comunque di restare o, infine, le motivazioni di chi, emigrato, decide di ritornare. E’ evidente l’incapacità di lettura di questi fenomeni se ci limitiamo ad una spiegazione solo di ordine economico. Se pensiamo che l’unica causa sia quella della mancanza di prospettiva di lavoro (per non dire della carenza abitativa) non cogliamo tutta la verità. Se ipotizziamo che chi resta è perché trova comodo vivere a lungo con mamma e papà ( senza l’assillo di impiego e di alloggio) sbagliamo e finiamo con l’offendere una parte di gioventù. Se,infine, riteniamo che chi torna nell’isola è perché altrove è fallito, sbagliamo di nuovo e di nuovo offendiamo la gioventù.

C’è da studiare a fondo la psicologia dei genitori e dei figli. Spesso i genitori, sia nel caso che abbiano avuto successo nella vita e nel lavoro, sia viceversa nel caso in cui abbiano frustrazioni da insoddisfazioni lavorative e sociali, vogliono determinare e condizionare il futuro dei figli. Vogliono proiettare in essi i propri desideri insoddisfatti o prolungare i propri successi. I figli, spesso condizionati da una società dell’arrivismo, del facile arricchimento e dell’individualismo imperante, studiano e lavorano con impegno per raggiungere invidiabili traguardi di status sociale e di ricchezza. E quelli che a volte ritornano lo fanno o per mostrare all’isola originaria quello di cui si è stati capaci di raggiungere altrove o semplicemente per condurre una vita più sana di quella della città, vicino ai parenti e per riconciliarsi con l’habitat abbandonato. C’è però un dato che desta perplessità e sfugge alla comprensione: i giovani che vanno a fare fortuna, carriera e nuove esperienze fuori dell’isola, anche nel caso che raggiungano vette eccellenti in professioni, imprese, posizioni apicali in enti pubblici o privati, non solo recidono i legami con la nostra isola, ma non appaiono interessati nemmeno a dare contributi sociali, associativi, partecipativi alla vita della comunità in cui si sono trapiantati. E’ come se esportassero l’isolitudine anche nelle nuove realtà locali. E’ come se venisse piantato un albero fruttuoso, non in un giardino ricco di altri alberi per un’armonia e bellezza comune, ma albero solitario in un giardino privato conchiuso. Certo, formano una famiglia, vivono bene, hanno un riconoscimento sociale, Ma non sono sicuro che abbiano una piena vita di relazione e partecipazione alla cosa pubblica. Temo fortemente che i loro padri, nonni, che continuano a vivere a Ischia, abbiano trasmesso loro il virus dello scetticismo, del pessimismo, dell’arrendevolezza politica e sociale. Sento sempre più spesso, in qualsiasi consesso isolano, proferire parole di resa, alzare la bandiera bianca del “ non c’è niente da fare, a Ischia non può cambiare nulla, la politica non ci ascolta, gli amministratori sono sintonizzati su un pianeta che ignora i bisogni reali del paese”. E’ il cane che si morde la coda: gli amministratori non ascoltano e non vedono, ma anziché incalzarli, contestarli, spronarli, ci arrendiamo e così il processo degenerativo continua e si aggrava. Oggi i pessimisti cosmici sono i veri “ cattivi maestri”.

A questo proposito segnalo un articolo emblematico apparso su Il Corriere della Sera del 21 febbraio, a cura di Patrizia De Mennato, professoressa di Pedagogia Generale e Sociale all’Università di Firenze, dal titolo: “E se fosse colpa dei nonni?”. Dal quale si evince come ci sia, sui figli e sui nipoti, il marchio di fabbrica di genitori e nonni. De Mennato riferisce gli studi di Galit Atlas, grande psicanalista della New York University: “I genitori tendono a vivere dentro noi figli senza il nostro permesso, ma anche i nonni vivono nei genitori e nei nipoti senza permesso”. Quella dei giovani è disamore per la politica, per il benessere collettivo, che ha narcotizzato l’Italia e l’Occidente? O è conseguenza di quello che il filosofo Umberto Galimberti chiama “L’ospite inquietante”, ovvero il nichilismo, la negazione di ogni valore? O ancora dipende dalla depressione e dalla solitudine che miete vittime a Ischia (ultima il diciannovenne ucraino Yuri)? Ancora dobbiamo approfondire la sociologia,la psicologia, l’antropologia per capire fino in fondo. Ma per capirne di più potremmo anche creare uno strumento di raccolta dati: gli amministratori potrebbero , per recuperare credibilità agli occhi dei giovani e infondere in loro quella speranza che non c’è, censire ( e lo potrebbero fare con l’ausilio di giovai stessi) tutti i giovani che sono andati e vanno via dall’isola. Mapparli, individuarli, seguirne i percorsi materiali,professionali, culturali, per ripristinare un cordone ombelicale che hanno reciso. Oggi che le interlocuzioni possono servirsi de collegamenti digitali, potremmo recuperare un dialogo che non c’è stato. Non rinunciamo ai nostri giovani, non abbandoniamoli all’isolitudine esportata altrove.

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Beta

Il suo ragionamento è molto interessante, ha ragione a parlare di isolitudine ma io aggiungerei anche la “sindrome dell’affittacamere”, che affligge tutti i luoghi dove ormai il turismo è quasi l’unico settore lavorativo.
Si tratta di un’allergia alla socialità. alimentata dalla convinzione che, dato il passaggio temporaneo delle persone, non valga la pena di strigere alcun rapporto di amicizia che vada oltre la cortese simpatia.
Nel caso delle isole, ovviamente questa “sindrome” si somma a quanto da lei già rilevato, diventando particolarmente invalidante…
Lo hanno sperimentato molti proprietari di case vacanza ischitane, che seppur frequentatori stanziali pluridecennali, spesso anche per tutto l’anno o per la sopraggiunta età della pensione, non sono di fatto mai diventati parte integrante della comunità.

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