IL COMMENTO Disastro climatico dell’Ego
DI ANNA DI MEGLIO COPERTINO
Monadi. Solitudine. Malessere. E’ ciò che la mia mente compone, in brevi flash, meccanicamente rielaborando gli input emotivi che dai sensi vigili la coscienza rapidamente percepisce, mentre siedo a cinema, con mio marito, nella grande sala. Vuota. Immagini in primo piano, luce opaca, una nenia della buona notte, che dovrebbe suonar rassicurante, ma si libra stanca al confine con una sconfinata malinconia. Un neonato, una giovane donna, provata dalle veglie, un uomo che tenta di avvicinarsi, ma di fatto è relegato in una dimensione altra. “The son”. Il figlio. Protagonista non quel bimbo, ancora in buona parte ignoto al mondo e a se stesso. E’ un altro il figlio che rivendica il titolo, con quel determinativo “il” a renderlo speciale. E anche profeticamente inquietante. Questi irrompe da subito come portatore del negativo, annunciato dalla madre, prima moglie dell’uomo – comparso in apertura nel suo ruolo di padre affettuoso, ma remoto – affranta, preoccupata per i segni di inequivocabile malessere accusati dal figlio Nicolas, a lei affidato dopo la separazione dei genitori. La crisi dell’adolescente viene imputata a tale lacerazione del nucleo familiare. “Il figlio” avrebbe potuto essere anche “Lo sconosciuto”, “L’alieno”, “Il malato di vivere”. E gli altri familiari potrebbero definirsi “Gli opachi”, “Gli spenti”, “Gli impotenti”, “Gli inetti”. Il regista “isola” i personaggi: non solo fra di loro, rendendoli incapaci di raggiungersi, nonostante le buone intenzioni, ma soprattutto nella storia, priva quasi completamente di altre figure, e spoglia di elementi, della ricchezza di un prima, simboleggiato solo da pochi input, che diventano, non perché enfatici, ma in quanto da manuale, retorici e irriscattabili. Pochi individui adulti, privati di spessore, di complessità operativa, con l’aura desolata della sconfitta e della tristezza. Il ragazzo in crisi accusa chi gli ha rapito il senso e il gusto della vita, soprattutto il padre, che ha tradito, lasciato sua moglie e il primo figlio, innamorandosi di un’altra e ricostruendosi una diversa famiglia, ma anche dedicando maggior tempo ed entusiasmo al lavoro e alla propria realizzazione politica. Sullo sfondo, stanze con vetrate ampie che affacciano su un inutile mondo. Gli ambienti sono case e ufficio: l’intimità mal vissuta e la vita lavorativa come realizzazione del sé, prospettata in chiave egoistica.
Le strade appaiono talvolta stranamente vuote, altre volte affollate, ma come di figure dipinte, benché in movimento. Il figlio adolescente che accusa il padre; il padre, adulto, a sua volta, in qualche modo, anche lui orfano della figura paterna, distante egli pure per impegni lavorativi, ma in realtà indifferente al destino emotivo del figlio, che gli appare infantile e incapace di gestirsi con forza e autonomia. Famiglie fallimentari, vite segnate, tragedia annunciata. Dolore che si fa incapacità, malattia, che genera sospetto, avvelena il quotidiano, suscita paura. Questa pellicola (recente adattamento cinematografico dell’opera teatrale del 2018 Le Fils, di Florian Zeller) sembra un insieme di fotogrammi strappati da una composizione, o una resa, in sintesi iconica. Manca il mondo con le sue potenti ragioni. Campeggiano solitudine e mancanza di spessore, di articolazione, di complessità, di divenire, di intrecci. Proprio per questo rappresenta il nostro tempo. La tragica incapacità di vivere con consapevolezza e saggezza le proprie scelte affettive, professionali, edonistiche, come arricchimento, gestendo le dinamiche problematiche in maniera coerente col proprio io interiore, e con la concreta possibilità per quest’ultimo di interagire con gli altri, non solo con quelli della propria sfera di intime relazioni, ma anche con la congerie sociale. Privato e pubblico sbiaditi come fantasmi e incubi in percorsi individuali, cui sembrano mancare finalità e ragioni concrete, perseguibili, salvifiche. Ultimi passi da un “mondo liquido” a uno evaporato in stato gassoso. Per dirla col titolo di un altro film di stagione, “Siccità”?
P.S.: in tema di disastri “ambientali”, non dimentichiamo di gestire anche questa più profonda e subdola emergenza nella nostra terra, dove, una volta tanto, i limiti insulari potrebbero regalarci un piccolo vantaggio, nel consentire una più intensa e feconda ripresa delle relazioni sociali per il benessere della sfera individuale come di quella pubblica.