IL COMMENTO Convertire le fragilità territoriali in opportunità
Qualche anno fa, nel ridipingere la facciata delle Antiche Terme Comunali d’Ischia, qualcuno si preoccupò di cancellare dalla scritta la parola “radioattive”, per cui le Terme comunali restavano solo “antiche” e non più radioattive. Per evidente timore di spaventare i turisti, desiderosi di cure termali. Ovviamente si sarebbe dovuto spiegare, ai potenziali clienti, che si tratta di terme debolmente radioattive, con una percentuale di radioattività inferiore ai 30 nCI/l (30 miliardesimi di Curie) e che pertanto non rappresentano alcun pericolo ma anzi attivano, nell’organismo umano, maggiori difese immunitarie (processo di ormesi). Come accade, per esempio, nelle Alpen Thermae di Bud Hofgastein in Austria ma anche a Prè Saint Didier, Sirmione, Bormio, Merano, Montegrotto ed altre. Questo sta ad indicare che è lontanissima dalla mente della classe dirigente (pubblica e privata) dell’isola d’Ischia l’idea di valorizzare il patrimonio naturale isolano anche per la sua particolare rischiosità e fragilità.
Al contrario, quando nel 2014 il prof. Ugo Leone e il compianto divulgatore scientifico ischitano Pietro Greco pubblicarono il dossier “Ischia, Patrimonio dell’Umanità – Natura e Cultura” per candidare l’isola a patrimonio Unesco, inserirono la radioattività (Paolo Gasparini e Agostino Mazzella), la sismicità, la storia vulcanica e gli alluvioni (prof. Giuseppe Luongo) tra gli elementi costitutivi dell’eccezionalità ed unicità naturale dell’isola. Scriveva, nell’introduzione, il professore di Politica dell’Ambiente, Ugo Leone: “Certamente non sono andate perdute, né mai potranno esserlo, i caratteri propri dell’identità geologica. Gli ischitani si sentirebbero più tranquilli se li avessero persi, ma quelli sono, per così dire, un’inalienabile dotazione naturale con la quale bisognerà sempre fare i conti”. Ecco il problema e la soluzione. A seguito del terremoto del 2017 e poi dell’alluvione, la messa in sicurezza è d’obbligo ed urgente, i piani di evacuazione anche, in caso di manifestazione di una delle calamità naturali che si ripetono ciclicamente. Ma non dobbiamo nascondere agli occhi estranei ( e nemmeno a noi stessi) queste eccezionalità naturali. Nè dobbiamo neutralizzarle con campagne pubblicitarie di “distrazione” ed esorcizzazione del rischio. Dobbiamo anzi imparare a conviverci, difendendo l’incolumità fisica nostra e l’integrità dei nostri beni (case, terreni, attività produttive) e dobbiamo invece imparare a convertire i rischi in opportunità.
Faccio un esempio italiano, quello di una piccolissima realtà naturale di straordinaria bellezza: Civita di Bagnoregio, in provincia di Viterbo, dove ha scelto di vivere il noto psichiatra Paolo Crepet. E’ definita la “Città che muore”, per il fatto che, arroccata su un picco affacciato sui calanchi e costituita da argilla e tufo, tende a franare ed erodersi lentamente. Cause di questi fenomeni è l’erosione prodotta dai torrenti, dagli agenti atmosferici e dal disboscamento. Gli abitanti fissi sulla rocca sono solo una ventina, il resto vive giù a Bagnoregio. Un ponte pedonale in cemento armato collega Civita a Bagnoregio. Fu fondata dagli etruschi ed è stata soggetta, oltre che a frane, anche a frequenti fenomeni sismici. Nel periodo romano si provvide ai canali di scolo per il corretto deflusso delle acque. Poi, nel tempo, fu trascurata ogni manutenzione. Insomma, una realtà piccolissima rispetto ad Ischia, ma con molte analogie. Bene, di queste fragilità, Civita se ne è fatta una ragione e ha tentato (con successo) di convertire la debolezza del territorio in forza attrattiva turistica. Transitano così, pagando un biglietto d’ingresso che, nel periodo natalizio, è stato di 5 euro, circa 700.000 visitatori all’anno e il ricavato contribuisce ad effettuare opere di sostegno e rafforzamento della città. Non nascondono la realtà ma anzi espongono queste fragilità territoriali in un apposito “ Museo delle frane”. Ecco, Ischia ha mille motivi in più di Civita di sfruttare in positivo le sue fragilità geologiche. Nella zona epicentrale sismica del Maio, lì dove è impossibile ricostruire case, va insediato un Parco Naturale e Scientifico Internazionale per lo studio dei sismi e degli alluvioni. La ricerca scientifica come risposta trasparente ai rischi ambientali.
Ma ciò non basta. Questo, come più volte proposto dal vulcanologo Giuseppe Luongo, deve avvenire a valle. Ma a monte va tutelato, manutenuto, valorizzato il Monte Epomeo, da cui si originano frane e smottamenti. E il modo migliore di farlo nel tempo medio (ovvio che è necessario intanto agire nell’immediatezza per la pulizia dei percorsi del deflusso delle acque e per l’imbrigliatura degli smottamenti) è quello di sollecitare la Regione Campania a istituire il Parco Regionale Naturale del Monte Epomeo. In Italia ci sono 134 parchi regionali naturali protetti; la Regione Campania ne ha 9, tra cui il Parco Dei Monti Picentini (Salerno), Parco dei Monti Lattari, Parco del Matese, Parco dei Campi Flegrei ed altri. I parchi regionali sono costituiti da aree terrestri, fluviali, lacuali o di costa, di valore naturalistico ed ambientale, che costituiscono un sistema omogeneo sotto il profilo naturalistico, paesaggistico, archeologico, antropologico. La Legge Quadro nazionale che ne consente l’istituzione è la n. 394 del 6 dicembre 1991; la Legge Regionale che ne recepisce i principi è la n. 14 del 24 giugno del 2020. Le finalità della legge sono elencate all’art. 3, tra cui citiamo e sottolineiamo. b) incentivare il recupero e la valorizzazione dei beni ambientali posti lungo gli itinerari; c) promuovere e valorizzare la fruizione alternativa della percorrenza motorizzata; d) promuovere e garantire la fruizione in sicurezza nei tratti montani e di interesse naturalistico; f) promuovere e valorizzare l’archeologia e l’archivio del paesaggio e il recupero delle specificità; h) promuovere la ricerca per accrescere le conoscenze tecnico-scientifiche-storiche e l’innovazione collegate alla gestione degli interventi infrastrutturali. All’art. 6 lettera b) ci si preoccupa della “ tutela delle aree di particolare fragilità naturalistica e paesaggistica, anche attraverso apposite limitazioni dei flussi escursionistici”. Importanti sono anche i divieti per l’area protetta: all’art. 15 si precisa che è fatto divieto di abbandonare rifiuti, accendere roghi e fuochi liberi all’aperto, di campeggiare o bivaccare, di transitare con mezzi motorizzati per sentieri naturalistici e ci sono sanzioni che vengono irrogate dalla Città Metropolitana, dai Comuni e dall’ente di gestione del parco. Nel regolamento attuativo vengono fissate (lettera d ) le caratteristiche di sicurezza necessarie per consentire le diverse tipologie di fruizione.
Che cosa più dell’Epomeo risponde dunque a questi criteri e a queste esigenze? Basti pensare alla bellezza del bosco dei Frassitelli, alle case di pietra, al tufo verde, alle fossa della neve, alle postazioni sentinelle a difesa dagli attacchi pirateschi dal mare, alla Pietra dell’Acqua, all’Eremo e alla sua storia di ritiri spirituali, al culto di San Nicola, a Giuseppe D’Argout, frate ed ex governatore del Castello d’Ischia, alle innumerevoli ed esclusive specie di fauna e flora esistenti. Il parco avrebbe il doppio scopo di assicurare una maggiore presenza, guardiania, manutenzione e prevenzione rischi (con finanziamenti regionali) della montagna e il compito di valorizzare e incentivare una forma di turismo ecosostenibile non invasivo di cui l’isola ha tanto bisogno. All’Epomeo sono legati più Comuni dell’isola d’Ischia e il Parco potrebbe essere un’occasione per una più stretta collaborazione intercomunale, di cui ugualmente abbiamo assoluto bisogno. Insomma, è così che possiamo coniugare emergenza e pianificazione, ricostruzione e futuro economico, sicurezza e sviluppo, natura e uomo.