Festa alla Torre con Eduardo Cocciardo per “Gli alfabeti della morte”
Gianluca Castagna | Forio – Una vicenda torbida ambientata a Ischia nel dopoguerra. Un mistero da risolvere che nasconde tutti i meccanismi diabolici della società contemporanea. Un commediante impressionato dal sangue, ma attratto dall’horror fin da bambino, alle prese con lo statuto del thriller, genere ubiquo per eccellenza, contenitore dalle molteplici definizioni, in grado – forse più del giallo – di catturare il disordine del mondo, quell’incrocio di linguaggi diversi e magma di regole contradditorie che scandiscono il ritmo teso delle nostre vite.
“Gli Alfabeti della Morte” (Arpeggio Libero Editore) è un romanzo atipico scritto da Eduardo Cocciardo, autore e attore isolano di teatro e cinema. Un thriller presentato al pubblico, dopo pochi mesi dalla sua uscita, in un contesto originale e suggestivo: ai piedi della imponente Torre del Torone di Forio, nei giardini di un’antica casa foriana appartenente alla famiglia De Rosa. E’ l’occasione per una festa a tema che rievoca un po’ quelle degli anni ’50, quando il sapore della terra e del mare dell’isola incantava i visitatori insieme alla calorosa accoglienza dei padroni di casa. Annamaria De Rosa e suo figlio Luigi hanno messo a disposizione villa e torre per un set che conducesse gli ospiti tra le pagine del romanzo di Cocciardo, nelle atmosfere imperscrutabili del racconto, tra le pieghe dei sentimenti (e delle paure) che agitano i protagonisti della storia. «Quando ho assistito alla prima presentazione del libro di Eduardo al Bar Maria – ha dichiarato Luigi De Rosa, organizzatore della serata, nonché padrone di casa con sua mamma Annamaria – sentendo parlare delle feste degli anni ’50, mi venne l’idea di rievocarne una nella villa della mia famiglia, sotto la magica torre di San Vito. I miei nonni Annetta e Renato De Rosa amavano questo posto, ed io continuo ad amarlo, e mi propongo di organizzare per questo paese che è nella mia anima eventi sempre più importanti e suggestivi. Questa sera è stato solo un inizio di un progetto più ampio, che ho denominato “Foriani nell’animo”, e che intende raccogliere tutte le individualità che vorranno prodigarsi per riportare questo paese ai fasti di un tempo».
Fantasmi e suggestioni del romanzo hanno preso forma grazie ai giochi di luce, alla musica sinistra agli interventi del giornalista Ciro Cenatiempo e alle letture dell’attore Leonardo Bilardi. Sembra quasi di sentirle, tra le mura centenarie della fortezza di pietra, l’amarezza e la vertigine dell’ex commissario Armando Santoro, protagonista del libro, costretto a ricominciare da zero dopo un trionfo personale e il dramma del carcere per uxoricidio. Solo e senza punti di riferimento, l’uomo decide di seguire il consiglio di un giovane monaco conosciuto in carcere. Andare per qualche tempo sull’isola d’Ischia, l’unico posto dove avrebbe trovato pace. A Forio, invece, lo attende un mistero ancora più grande. Ne abbiamo parlato con l’autore del romanzo.
Com’è nata l’idea di questo romanzo e perché hai deciso di organizzare una festa qui, sotto questa magnifica Torre foriana, per ripresentarlo al pubblico?
«E’ un omaggio dovuto alle mie origini, e dunque alla mia terra. A ciò che fu un tempo, e oggi non è più. Dietro la veste del thriller, si intravede l’architettura del romanzo storico, perché il racconto è ambientato su due livelli temporali vicini, ma irrimediabilmente separati. Il 1948, l’immediato dopoguerra, col suo cumulo di macerie e speranze, e il 1956, con l’avvio di un grande processo di ripresa, che faceva però già intravedere le contraddizioni che avrebbero portato all’Italia attuale. Abbiamo deciso di organizzare una festa a tema che rievoca quelle che si tenevano a Forio negli anni 50, magari provando a ricostruire un’atmosfera che non è solo quella del romanzo, ma anche di un’intera epoca e della cultura di Forio. Poi, come vedi, c’è un vento minaccioso (lo abbiamo noleggiato apposta), ci sono i gatti neri, i barbagianni nella Torre, e c’è perfino un maggiordomo sulla porta interpretato da Luigi Patalano».
Da uno spunto autobiografico, i racconti di famiglia su quegli anni, hai aperto uno squarcio sulla società degli anni ’50, eccitata ma forse anche scossa da profondi cambiamenti.
«Sentivo di avere quasi un dovere: scrivere qualcosa sul posto in cui ero nato. Ho scelto il thriller, con forti venature mistery, perché credo che Ischia sia un luogo che conserva misteri profondissimi, ha una storia molto complessa, non tutta completamente nota, non sempre compiutamente espressa. Un territorio legato fortemente, sin dall’antichità, all’orizzonte dell’ignoto: pensiamo alla mitologia greco-romana che localizzava sulla nostra isola uno degli ingressi principali dell’Ade, o al gigante Tifeo, personaggio mitologico che ha un ruolo centrale nel mio romanzo. Poi, certo, volevo raccontare di Forio e delle sue chiese, dei suoi cortili e dei suoi rifugiati politici, Come Luigi Collado che parla, ai pescatori, della sua Cuba come di una nuova terra promessa. Del Caffè Internazionale e di Maria Senese, la donnina nerboruta che grazie al suo incredibile carisma riuscì ad attrarre ai suoi tavoli artisti ed intellettuali dell’epoca. Ecco, Forio come crocevia della storia e del mondo, perfetto punto di sintesi di cambiamenti in atto che avrebbero portato al mondo che oggi conosciamo».
Quanto tempo hai impiegato per scriverlo? Ci sono state difficoltà a misurarti con le regole, e i “tòpoi” del genere?
«Ci ho messo quasi tre anni, soprattutto per altri impegni che avevo e hanno inevitabilmente rallentato la stesura. Non ho trovato particolari difficoltà a misurarmi con un genere che apparentemente è lontano da me. Io sono conosciuto come un autore e attore comico, è vero, ma è stato più difficile misurarmi con la complessità dell’architettura del racconto, piuttosto che con le regole del thriller. La vicenda ha un sfondo storico che volevo accurato, per cui ho dovuto studiarlo in maniera molto approfondita. Alcune volte mi sono lasciato andare all’inconscio, all’irrazionalità, in altri casi fare i conti con le regole era inevitabile. Mi sono divertito, ma credo che resterà un esperimento unico nella mia scrittura. Al contrario di quanto accadrà, spero presto, nel cinema, dove voglio tornare a raccontare la mia isola».
Perché lo hai chiamato “Gli alfabeti della morte”?
«La morte si coniuga in mille modi, quindi gioco – anche storicamente – su come si è evoluta assieme all’uomo. Il racconto è anche una riflessione sul tema del Male, qualcosa che – come sosteneva anche Auden, “non è mai straordinario, divide il letto con noi e mangia alla nostra tavola”. Il male vive con noi».
Bianco, rosso, nero. I colori di questa serata.
«Rosso per il sangue; nero perché richiama la notte, l’oscurità, il mistero. Il bianco è un colore che amo tanto, per molti è un colore positivo, ma in alcune culture e paesi rappresenta il colore del lutto, quindi legato all’atmosfera sinistra che ho voluto ricreare».
Ci sono anche i fantasmi del tuo libro?
«Sono fantasmi che restano dentro di me, quindi ci sono sempre. Quando si evocano certi personaggi o certe storie come questa che ho voluto raccontare, accadono delle cose magiche. Credo moltissimo che scrivere un libro non sia scrivere qualcosa di irreale, anche quando il tema può apparire lontano dalla concretezza delle nostre vite. Non siamo noi a trovare le storie, sono le storie che ci cercano, basta avere canali aperti per farti trovare. Sono convinto che molti dei personaggi del libro esistano da qualche parte, che in loro ci sia più verità di quanta se ne trovi nelle nostre vite».
Tu sei nostalgico?
«Nostalgia canaglia? Non saprei. E’ un’epoca che non ho vissuto ma a cui sono legato per i racconti di mia nonna, che quegli anni li ha vissuti veramente. Ecco, il libro è anche un omaggio alla sua memoria. Di lei ho molta nostalgia, sì».
C’è un personaggio che senti più vicino dove, anche inconsapevolmente, hai messo un po’ di te stesso?
«Sì, il protagonista. In verità somiglia più a mio nonno che a me. Non è un racconto autobiografico, ovvio, ma c’è qualcosa di me in ogni personaggio, mi sono un po’ sparpagliato. Penso, ad esempio, a quel pittore di fantasia che compare nel libro».
E’ dunque la paura, o l’amore, che muove davvero il mondo?
«Sono molto vicini. L’amore viene prima di tutto. Quel che c’è dopo, che può essere la paura o la comicità, lo sgomento o l’inquietudine, perfino la morte, è solo una delle possibili conseguenze».
(photo: Carlo De Rosa)