«È un mondo complesso»
Ci siamo svegliati a causa di un’esplosione al centro dell’Europa che, abbiamo scoperto, non riguarda solo due popoli lontani ma ci interessa da vicino. Sia per la ricerca della pace, azione prioritaria che si compie nella difesa degli Ucraini sotto l’egida dei Valori europei, sia perché in caso di escalation i riverberi ci coinvolgeranno ancor di più da vicino. Inutile dire che il mondo è tutto collegato, stiamo scoprendo anche questo, magari per qualcuno è l’acqua calda. Per questo se un evento tragico accade in un Paese quasi lontano dal nostro, le ripercussioni ci saranno anche per noi, in misura minore o maggiore in ragione di altri elementi. In questo Paese, un po’ per scarsa visione e per una sorta di avversione verso la Geopolitica che ha il compito di riportare le cose nel “qui e ora”, in particolare nello studio e del ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, la complessità del mondo e delle sue relazioni e la mancata affermazione, per altro verso, dell’Italia nel bacino e un po’ per una sorta di delega di responsabilità all’Europa, nessuno ha pensato agli interessi dell’Italia. Risultato: un silenzio negli ultimi 30 anni interrotto solo dalle campagne elettorali. Oggi riscopriamo, in un bagno di realismo, tra il Covid e la magnifica prospettiva di nulla con la guerra alle porte – la quale in termini di atrocità non è dissimile da quella in Donbass nell’Ucraina orientale iniziata nel 2014 sulla quale come Europa abbiamo chiuso un occhio o entrambi; o da quella in Siria o in Afghanistan o in Iraq e delle altre prima di queste – che forse è arrivato il momento di cambiare prospettiva o, se vogliamo, paradigma. Nella considerazione che la “pace” nel mondo non è uno “status” o un’illuminazione cui si può giungere senza sforzi. Primo in assoluto, in questo caso, quello della diplomazia.
In secondo luogo, evitando di comportarsi come [non] fanno in molti, cercando di capire che cosa sta avvenendo [in quel settore dell’industria, del commercio o del turismo come in quel Paese X], nella domanda “perché accade, perché si è arrivati a questo punto?”. Il tutto, entrando il più possibile in un terreno di “empatia informata”, vale a dire sforzarsi di capire cosa vuole l’avversario. Dimenticare insomma l’orgoglio e usare la testa, anche in periodo di “pace”. Cosa che abbiamo scordato di utilizzare a cominciare – ma quasi certamente già da molto prima – dalla fine del Trattato Inf sui missili nucleari, siglato nel 1987 tra Stati Uniti e Unione Sovietica. La cui conclusione ci ha messo di fronte a un mondo in profonda mutazione con equilibri ancora da definire nel [nuovo] confronto tra potenze. Stiamo entrando insomma, secondo un concetto ripreso da qualche analista, in un periodo di “pace calda” che identifica la transizione verso altri livelli di schieramenti e di accordi conseguenti. Stiamo scoprendo che torna in auge la sentenza latina «si vis pacem parabellum» (se vuoi la pace, prepara la guerra) che, secondo la Treccani, può essere interpretata “nella direzione che uno dei mezzi per assicurare la pace è quello di essere armati e in grado di difendersi in modo da scoraggiare eventuali propositi aggressivi degli avversari”. Non esclude però, a mio avviso, lo “stato” di tensione in cui deve proiettarsi uno Stato attraverso l’azione, non limitandola al semplice “armarsi” per mantenere la pace e neppure delimitandola solo a quella interna ma in altre parole riscoprire i termini di politica e relazioni estere che in Italia abbiamo per lo più dimenticato e considerato ingenuamente. Serve un’Europa, e purtroppo forse ce ne stiamo rendendo conto in ritardo, presente in un mondo che sta cambiando velocemente ben sapendo – conoscendo, anzi – che insieme all’Italia ci sono altri popoli europei [magari con interessi diversi o contrapposti]. Serve un’Italia ancorata al campo occidentale e a quello transatlantico che ci ha garantito almeno ottanta anni di pace. Ben consci che al di fuori di quei “valori” democratici imprescindibili, come la libertà in tutte le sue forme, il nostro Paese ha poco o nulla in comune con altri. Fermo restando, naturalmente, che la “Russia di Putin” non è quella che vuole almeno una parte del suo popolo il quale attraverso le manifestazioni dei giorni scorsi al grido di “Stop war, stop Putin”, cui hanno fatto seguito oltre 5 mila arresti, ci ha fatto sapere dell’ondata di dissenso che pian piano sta montando nel Paese. Certo, nei confronti di un’invasione illegittima e di chi l’ha determinata ma molto probabilmente anche contro le sue ragioni di risentimento e dallo smettere di temporeggiare per non essere superato dalla storia nel tentativo di recuperare calcoli zaristi e tardo imperialisti. Anche per questo, Putin, non è intenzionato a perdere la faccia con il “suo” popolo. Ragione che rischia di mettere tutti noi – in primis l’Ucraina e la sua gente -, in una condizione di tensione fissa della quale dobbiamo essere coscienti, specie adesso che ci stiamo svegliando. Non sappiamo quali esiti usciranno dai tavoli delle trattative, alcuni in chiaro sotto le telecamere e altri chiusi, quelli “veri”, alla stampa internazionale e ai giornalisti. La speranza è l’ultima a morire? Probabilmente sì, anche per la ricerca della pace che auspichiamo possa arrivare in fretta. Allo stesso modo in Italia, però, dobbiamo desiderare di non fare la stessa fine della speranza, troppe volte attesa e pochissime altre “costruita”.
Dobbiamo cambiare il linguaggio, imparare a parlare quello del potere. Dobbiamo sapere che siamo di fronte a un multi polarismo reale e abbracciare, una buona volta, la complessità. Dobbiamo conoscere che il grano già aumentato del 15% nel “granaio d’Europa” da cui l’Italia si approvvigiona, l’Ucraina appunto, ed ha difficoltà ad arrivare nel nostro Paese i cui produttori nel tentativo di cercare mercati alternativi non sanno per quanto durerà (con i sacchi di farina aumentati intanto del 300%, da 6,50 a 18 €). Dobbiamo sapere che l’Italia importa sempre dall’Ucraina il 55% di mais. Dobbiamo sapere che il gas che usiamo nelle industrie e per l’energia elettrica o per riscaldarci, per il 25% del nostro fabbisogno arriva dalla Russia non dimenticando che i profughi adesso sono oltre 500 mila e la questione di sicuro si schianterà pure sul nostro Paese. Dovremmo imparare, perciò, a essere più realisti. Chi invoca sull’onda dell’emotività un intervento della NATO dimentica i meccanismi di ingaggio e che il rischio di una guerra nucleare in caso d’intervento da parte dei suoi membri è altissimo. In questo scenario ben più e assai complesso che non si risolverà a breve, c’è necessità per l’Italia di cambiare, come ho detto, il linguaggio e, perciò, l’approccio alle cose. Quest’urgenza, a differenza di quel che pensa qualcuno, non esclude l’isola d’Ischia. Ci coinvolge non solo per la massiccia presenza della comunità ucraina, alla quale va manifestata la nostra vicinanza, ma ci impone di adottare una serie di misure volte a contenere gli squilibri che potrebbero verificarsi da un’ipotetica interruzione di gas, per la scarsità di generi alimentari o addirittura per lo stravolgimento dei flussi turistici, non soltanto a causa della guerra specie per chi proviene da quelle zone (russi, in particolare), pure per l’aumento dell’inflazione. Insomma anche in questo caso i sindaci hanno tutti i segnali per muoversi insieme ed esprimersi anticipatamente con tensione univoca per “costruire” una “pace” [sociale] e non limitarsi a sperarla invocando la Regione o lo Stato.