Cristo è morto in cantiere
Di Giorgia Orlando
La domanda ci viene posta fin da piccolissimi – cosa vuoi fare da grande? – e la risposta è quasi sempre legata all’ambito del desiderio e del “vorrei”. Se lo si riuscirà a realizzare o meno, è altra cosa, perché la vita è smarginata e la scelta, tante volte, più che una possibilità, è un privilegio. Per esempio, Luana avrebbe forse risposto che le sarebbe piaciuto diventare un’attrice, ma poi era arrivato il bambino e quel sogno si era evoluto nella necessità di andare a vivere con il suo compagno, eppure aveva solo 22 anni quando il suo corpo e i suoi progetti sono rimasti intrappolati in uno dei macchinari dell’azienda tessile in cui lavorava. Chissà quali sarebbero stati i desideri di Lorenzo, 18 anni, quarto anno del centro professionale dell’Istituto salesiano di Udine. Forse avrebbe cercato di realizzarsi nel settore della meccanica industriale ed è proprio mentre stava terminando il suo apprendistato che è stato colpito alla testa da una trave d’acciaio. Si sostiene che nel lavoro l’uomo trova parte della sua realizzazione e della sua dignità, ma non si aggiunge che è proprio per questo motivo che i diritti, tutti e sempre, devono essere imprescindibilmente riconosciuti, e invece anche i giovanissimi, per esempio per mezzo dell’alternanza scuola-lavoro, vengono presto abituati all’iniqua condizione del lavoro non sicuro e non retribuito. Denunce per infortunio con esito mortale. Si dice così, in termini burocratici, quando qualcuno muore a lavoro e di lavoro. Più comunemente, però, si usa un’altra espressione, che sembra poggiarsi su questo genere di storie come un lenzuolo, quasi a coprirle. “Morti bianche”. Le chiamano così. Del resto il bianco è il colore dell’innocenza, delle cose pulite, privo di sfumature, di macchia, di colpa. Sembra quindi si stia parlando di una fatalità, di una disgrazia inevitabile. Comunque, però, di qualcosa di accettato, di cui si mette in conto il pericolo, ecco. Se, mentre stai lavorando, c’è un incidente e quell’incidente t’ammazza, è una cosa che capita. È capitato 1221 volte, per l’INAIL, solo nel 2021, vale a dire una media di tre persone morte al giorno, escludendo dal calcolo i lavoratori a nero che superano i tre milioni. Così il bianco smette di essere bianco e si contamina con le impronte di sangue lasciate dalle mani di chi avrebbe dovuto agire, prevenire, ma non lo ha fatto, perché se l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro allora è fondata anche sulla media di 8 aziende irregolari su 10. È in questo che c’è la fatalità imprevedibile, la disgrazia improvvisa non anticipabile?
Ritengo che sintetizzare la questione, liquidandola a improvviso incidente sia una profonda mancanza di rispetto verso chi resta vittima della mancata volontà imprenditoriale di impegnarsi nell’investimento oneroso della formazione dei loro operai e nel miglioramento delle condizioni di lavoro, partendo dalla messa in sicurezza degli spazi. D’altra parte, lo Stato si intimidisce nell’assumere una concreta e chiara posizione in proposito, che non ammetta repliche, quindi come direbbe De André, “si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità”. La realtà è che creare un ambiente sicuro è un binomio composto da diritti e doveri, per cui non deve esserci esitazione nel sostenere che una morte bianca, allora è la morte di chi è stato ammazzato, prima ancora che dalla macchina, da un sistema ingiusto che riflette sempre troppo poco e troppo tardi su questo tema, come se fosse naturale ammalarsi e ferirsi in un ecosistema caldissimo di metallo, pietra, chimica, terra, capace di uccidere quell’organismo che per difendersi ha solo muscoli, ossa, nervi, vene e sangue, e che fagocita in sé per turni immensi e sottopagati. Dal mondo democratico, si distacca così una cellula quasi anarchica che ordina la società nel sistema binario di Orwell – tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri – per cui si distingue fra chi comanda e chi è comandato, dove i secondi obbediscono ai primi con la dignità richiesta dall’urgenza di dover sbarcare il lunario, non importa quanto sia inaccettabile il prezzo. Per esempio, non è più vita ma è schiavitù quella a cui sono obbligati i braccianti nei campi sparsi in Italia. “Sono lavori che gli italiani non vogliono fare” – si dice, come se ciò significasse qualcosa e giustificasse lo sfruttatore, il caporalato. Come se essere non italiano portasse con sé la diretta caratteristica di essere anche privo di diritti, di essere anche non umano e allora dilagano il sottosalariato e l’illegalità, e allora se sei italiano, quindi quello con i diritti, quello umano, allora senti anche la legittimazione a prendere un’arma e a sparare contro chi è piegato in due a raccogliere pomodori per te e al posto tuo.
È successo. Succede ancora. Succede che si tratta di giornate di 12 ore lavorative. Succede che nel Paese ci sono circa 100 mila migranti distribuiti in 50-70 baraccopoli, privati di acqua, servizi igienici e assistenza sanitaria. Il British Medical Journal, insieme a Medici con l’Africa Cuamm, sostiene che il 50% dei braccianti agricoli è malato per il troppo lavoro ma non si cura per la paura di perdere il posto, perché è evidente che il lavoro non ha quasi più nulla di etico ma è rinchiuso in una bolla fatta di denaro e produttività, per cui un operaio che sta male non è un soggetto da tutelare, piuttosto un ingranaggio rotto che inceppa la macchina e che va sostituito subito per evitare le perdite. Questo succede nei magazzini di Amazon, ma anche in Qatar dove la necessità di realizzare nuove infrastrutture in vista dei Mondiali di Calcio 2022, ha consentito l’impiego di circa 2 milioni di migranti provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh, Sri Lanka, Filippine. Tra questi, si contano almeno 6500 morti e per il 70% di queste non sono state fornite spiegazioni plausibili. Si sta parlando di operai costretti a lavorare a temperature che raggiungono anche i 50 gradi, per giornate di lavoro che possono durare anche 10 ore, senza pause s’intende, che possono essere costretti a non cercare impieghi diversi da quello, per i quali non esistono sindacati, quindi neanche una vera e propria lotta collettiva. Allora sì, Cristo è morto in cantiere perché è come Cristo che muoiono gli operai, quindi innocenti e per le colpe di altri. Colpe che hanno come prezzo la lacerazione, l’ustione, la spaccatura dei corpi di figli e figlie, di madri e padri, di fratelli e sorelle, di mogli e mariti, di amici e amiche. E a chi resta, allora restano solo le lacrime di incolmabile rabbia per una battaglia che non è mai veramente vinta, almeno non fino a quando le morti cesseranno di essere valutate in termini di numeri, di entrate e uscite, e diventeranno morti di uomini e donne e ci si impegnerà seriamente per evitarle. Morire di lavoro, oggi soprattutto, è inaccettabile e quando si vuole che qualcosa cambi, allora bisogna parlarne, perché è solo spostando le cose dall’ombra dell’indifferenza alla luce dell’attenzione che al colore bianco sarà permesso, allora, di essere davvero solo bianco, senza sfumature di colpa.