Così la Cassazione ha “Dimesso” Carannante
Ecco la verità sulle dimissioni del professionista procidano dalla giunta guidata dal sindaco Ambrosino. Nel novembre 2023, dopo l’assoluzione con rito abbreviato in primo grado, l’ex assessore era stato condannato in Appello per tentata estorsione: inutile il ricorso per Cassazione, respinto dalla Suprema Corte che di fatto ha chiuso la sua esperienza politica
Non ci sono motivazioni di natura personale, politica o di altra natura alla base delle dimissioni dalla carica di assessore del Comune di Procida, Antonio Carannante. La voce circolava da tempo, il sospetto era forte e adesso arriva anche la conferma: il canto del cigno del professionista dalla sua lunga esperienza in giunta (durata ben nove anni) in compagnia del sindaco Ambrosino è stata causata dalla condanna definitiva, causata dalla sentenza emessa dalla Suprema Corte di Cassazione, ai danni di Carannante che come i più attenti lettori certo ricorderanno rimase coinvolto in una vicenda di cronaca che lo portò a finire per un periodo anche agli arresti domiciliari. A scrivere la parola fine è stata la Seconda Sezione Penale che ha respinto il ricorso presentato dallo stesso Carannante, che era assistito dagli avvocati Luigi Tuccillo e Alessandro Iazzetti.
LA “SCURE” DELLA SENTENZA DELLA CORTE DI APPELLO
Come viene evidenziato nel dispositivo, il ricorso era stato proposto contro la sentenza della Corte di Appello di Napoli del 30 novembre 2023 con la genesi degli eventi che viene anche riproposta nella sentenza dove si legge: “1. Con sentenza in data 30 novembre 2023 la Corte di Appello di Napoli, in riforma della sentenza di assoluzione in data 16 dicembre 2021 del Giudice per l’udienza preliminare della medesima città, in accoglimento dell’impugnazione proposta dal Pubblico Ministero, per la parte che in questa sede interessa, ha dichiarato Antonio Carannante colpevole del reato di concorso in tentata estorsione (artt. 110, 56, 629, 61 n. 9, cod. pen.). In estrema sintesi si contesta al Carannante – in concorso con Giuditta Rita Giacquinto (la condanna della quale è divenuta irrevocabile in quanto non impugnata) – quale avvocato nonché assessore al Comune di Procida con deleghe al contenzioso, con minaccia consistita nel rappresentare a Salvatore Costagliola che, nel caso in cui questi non avesse provveduto all’immediato versamento a favore della Giacquinto di 20.000 euro, quest’ultima avrebbe denunciato ai carabinieri i presunti abusi edilizi consumati dallo stesso Costigliola, aggiungendo che la Giacquinto era ‘molto arrabbiata’ per il fatto che il Costagliola non aveva evaso le sue precedenti pretese e che dunque avrebbe agito nei confronti di quest’ultimo ‘a trecentosessanta gradi’, facendo a tale riguardo pressioni sull’Agente di Polizia Locale del Comune di Procida affinché procedesse a controlli sul manufatto del Costagliola, in tal modo compiendo atti idonei e diretti in modo non equivoco a procurare a sé ed alla Giaquinto un ingiusto profitto. Il reato è contestato come commesso in Procida nel dicembre 2019 ed accertato nel gennaio 2020”.
LA DIFESA DELL’AVVOCATO ALESSANDRO IAZZETTI
Fin qui le contestazioni all’imputato che, sempre come riportato in sentenza di ultimo grado, l’avvocato Iazzetti aveva ribattuto così: “Al momento in cui l’avv. Carannante assunse dalla Giaquinto l’incarico professionale, era già in atto tra le parti una accesa discussione avente ad oggetto, tra l’altro, il regolamento dei confini in vista della realizzazione da parte del Costagliola della ristrutturazione di una piccola unità rurale limitrofa alla proprietà della Giaquinto per la quale il primo aveva già ottenuto il permesso a costruire; come risulta da una informativa dei carabinieri e dal contenuto di conversazioni intercettate, vi era un forte astio tra le parti che trascendeva la problematica sopra descritta; era il Costagliola che aveva interesse ad una rapida soluzione della vicenda; vi era anche una bozza di scrittura privata tra il Costagliola e la Giacquinto, avente ad oggetto una transazione in base alla quale la seconda avrebbe consentito a che il primo aprisse nel muro a confine delle luci ingredienti in cambio del versamento della somma di 4.000 euro. Ciò premesso, rileva parte ricorrente che la richiesta di denaro da parte della Giaquinto e della quale l’avv. Carannante riguardava il ristoro richiesto dalla prima a fronte delle iniziative edilizie del Costagliola il che escluderebbe che ci trovi in presenza di un profitto giuridicamente non tutelabile. A ciò si aggiunge, prosegue parte ricorrente, che non appare ravvisabile nel comportamento del Carannante, che agiva per conto della Giacquinto e, quindi, senza perseguire un fine proprio, un atteggiamento minaccioso tenuto nei confronti del Costagliola come si evincerebbe sia dal contenuto di una raccomandata del 28 dicembre 2018, sia dal colloquio presso lo studio dell’odierno ricorrente del 3 dicembre 2018, sia dalla registrazione del contenuto di altro incontro, avvenuto sempre presso lo studio del legale in data 23 gennaio 2019. La minaccia di adire le vie legali non potrebbe pertanto assurgere a minaccia di natura estorsiva. Infine, da un lato, non si potrebbe neppure ipotizzare che l’odierno ricorrente abbia abusato della propria qualità e dei connessi poteri di assessore in quanto è stata la stessa Corte di appello ad escludere la configurabilità del reato di cui all’art. 317 cod. pen. che era stato contestato in via alternativa e, dall’altro, la successiva rottura dei rapporti tra il Carannante e la Giaquinto sarebbe sintomatico della dissociazione del legale dalle future iniziative della cliente”.
“DA ANTONIO CARANNANTE NESSUNA STRATEGIA ESTORSIVA”
La difesa dell’ormai ex assessore Antonio Carannante evidenzia ancora: “La sentenza impugnata è priva di un valido percorso argomentativo in riferimento al contestato concorso del Carannante nel reato ipotizzato a carico della Giaquinto, avendo il legale agito in base al mandato professionale conferitogli dalla cliente ed avendo compiuto attività perfettamente avrebbe sostanzialmente invertito i canoni logici nell’interpretare il materiale probatorio acquisito che invece sarebbe dimostrativo non di una strategia estorsiva ma della esecuzione di un mandato professionale.
LA BOCCIATURA DELLA CASSAZIONE: RICORSO NON FONDATO
Purtroppo per l’avvocato Carannante però la Suprema Corte non ha avuto dubbi nello spiegare che “il ricorso in tutte le sue prospettazioni non è fondato”. Spiegando in questa maniera, ampia e articolata, anche il perché: “Giova, innanzitutto, rilevare che la Corte di appello, nel ribaltare la sentenza assolutoria di primo grado pronunciata dal G.u.p. all’esito del giudizio abbreviato, ha prodotto una motivazione ‘rafforzata’ adeguatamente analizzando la sentenza impugnata dal Pubblico Ministero ed evidenziando le carenze motivazionali della stessa legate ad un frammentario quanto incompleto esame delle risultanze processuali. La stessa Corte territoriale ha, poi, con una valutazione di merito insindacabile in questa sede di legittimità, adeguatamente motivato circa l’attendibilità della persona offesa dal reato, non costituitasi parte civile, che ha reso dichiarazioni valutate come non caratterizzate da intenti speculativi, conformi e reiterate nel tempo oltre che coerenti, di fatto non smentite dalle ulteriori risultanze probatorie richiamate nella sentenza ed anzi confermate dal richiamo alle altre prove dichiarative emergenti dagli atti (vedi dichiarazioni dell’Ing. Lubrano presente ad uno degli incontri con l’imputato allorquando fu formulata la richiesta estorsiva il quale ha anche riferito di aver ricevuto più telefonate dall’imputato che insisteva per ottenere dal Costigliola la risposta alla domanda di esborso di denari) oltre che dal contenuto delle conversazioni registrate. A ciò si aggiunge che la motivazione della sentenza della Corte di appello non è certo ‘manifestamente’ illogica e tantomeno contraddittoria. Per contro deve osservarsi che parte ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione e dell’asseritamente connessa violazione di legge nella valutazione del materiale probatorio, tenta in realtà di sottoporre a questa Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito. Al Giudice di legittimità è infatti preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre questa Corte Suprema, anche nel quadro della nuova disciplina introdotta dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, è – e resta – giudice della motivazione”.
LA SUPREMA CORTE: CORRETTA L’ACCUSA DI TENTATA ESTORSIONE
Poi la sentenza della Cassazione firmata dal presidente Sergio Beltrani e dal consigliere estensore Marco Maria Alma aggiunge: “ In sostanza, in tema di motivi di ricorso per Cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che ‘attaccano’ la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. Quanto alla qualificazione giuridica del fatto come concorso in tentata estorsione, sulla doverosa premessa che – contrariamente a quanto asserito dal ricorrente – è del tutto irrilevante l’intervenuta (di fatto) esclusione della contestazione alternativa formulata dal Pubblico Ministero riguardante la violazione degli artt. 56, 317 cod. pen., ritiene l’odierno Collegio che la stessa è da ritenersi corretta nel momento in cui la Corte territoriale ha comunque doverosamente valorizzato la forza intimidatoria esercitata dall’avv. Carannante con il suo agire nei confronti del Costagliola avvalendosi anche del proprio ruolo di assessore al Comune di Procida con deleghe al contenzioso. E’ il caso del richiamo effettuato nella sentenza impugnata alle dichiarazioni rese dal Vigile Intartaglia che – come ha ricordato la Corte di appello – ha riferito le pressioni ricevute dal Carannante affinché fossero eseguiti controlli presso l’immobile del Costagliola in fase di ristrutturazione, fornendo quindi informazioni coerenti con quelle rese dalla persona offesa e ritenute indicative del comportamento fortemente incalzante mantenuto dall’odierno ricorrente nei confronti della stessa persona offesa. Correttamente la Corte territoriale ha poi evidenziato come la condotta dell’odierno ricorrente ha ampiamente travalicato le ordinarie caratteristiche di tutela extraprocessuale della propria assistita Giuditta Giaquinto avendo il Carannante operato nella vicenda su due piani: «uno diretto verso la persona offesa tramite la prospettazione neppure velata di iniziative giudiziarie, in assenza di qualsiasi titolo per proporle, e, quindi, volte esclusivamente ad intralciare la prosecuzione dei lavori ed uno, connesso al primo, rivolto verso le opere di ristrutturazione della proprietà immobiliare, esercitando, quindi una attività che, complessivamente valutata, assume caratteri di intimidazione finalizzata a coartare la volontà della persona offesa al fine di ricavarne un profitto ingiusto, tramite l’imposizione della dazione illecita di 20mila euro». Sotto questo secondo profilo è stato correttamente rimarcato dalla Corte di Appello come l’odierno ricorrente, approfittando della sua veste di assessore comunale, si era recato più volte presso il Vigile Intartaglia per sollecitare verifiche e controlli presso la proprietà dove Costigliola stava realizzando consistenti lavori di ristrutturazione e che da dette sollecitazioni ne conseguivano, nei primi giorni di marzo 2019 e come riferito dalla persona offesa, più attività da parte dei vigili che peraltro non portavano all’accertamento di alcuna irregolarità. Non v’è chi non veda come dalla situazione descritta dal Giudici di merito ci si trovi in presenza di una condotta dell’odierno ricorrente caratterizzata dal duplice ruolo sopra descritto, indubbiamente caratterizzato da caratteristiche intimidatorie che palesemente esorbitano dal corretto esercizio di attività professionale finalizzata alla tutela di diritti della propria assistita. Se, infatti, non v’è dubbio che la mera richiesta di una somma di denaro per chiudere in forma transattiva una controversia intercorrente tra le parti e la conseguente prospettazione, in caso di mancato accordo, di adire le vie legali è attività da ritenersi del tutto lecita e rientrante nei poteri professionali del difensore di una di esse, il caso in esame è tuttavia caratterizzato da ulteriori elementi che ne determinano l’illiceità: a) innanzitutto, il requisito dell’ingiustizia del profitto legata – come ha evidenziato la Corte di appello – all’assenza di alcun titolo giuridico, neppure presuntivamente ritenuto, che sia collegabile alla pretesa di denaro fatta dal Carannante per conto della Giaquinto; l’assenza – sempre evidenziata dalla Corte territoriale – di una proposta di transazione tra le parti non risultando prospettata alcuna concessione da parte della Giaquinto al Costagliola; l’unilateralità della richiesta di denaro in cambio della mancata proposizione di iniziative giudiziarie a loro volta finalizzate ad intralciare la prosecuzione dei lavori edili; la stessa esosità della richiesta: si noti che parte ricorrente si limita a citare l’esistenza di una bozza di transazione relativa al versamento della somma di 4.000,00 euro, cifra comunque ben distante dai 20.000,00 euro richiesti e comunque non altrimenti giustificati. Fatti ai quali si aggiunge la già più volte richiamata attività intimidatoria esercitata attraverso l’esercizio da parte dell’avv. Carannante di poteri extraprofessionali”.