Assolto per non aver commesso il fatto. È questo il verdetto del Tribunale nei confronti di un cittadino di Lacco Ameno, R.G., accusato di due reati, molestia e minaccia telefonica. Il primo, previsto dall’articolo 660 del codice penale, gli era stato contestato perché avrebbe effettuato reiteratamente telefonate anonime sull’utenza fissa di un cittadino foriano, C.P., e dunque «arrecava molestia e disturbo al predetto e al suo nucleo familiare».
La seconda ipotesi di reato, previsto dall’articolo 612 del codice, era stata mossa «perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, minacciava C.P., attraverso l’uso del telefono» di un male ingiusto proferendo nei suoi confronti frasi come “t’aggia accir”. Una vicenda che ebbe inizio oltre sei anni fa, e che dal punto di vista giudiziario inizialmente avrebbe dovuto essere incardinata presso la sede centrale del Tribunale di Napoli ma che poi fu assegnata alla sezione ischitana. Davanti al giudice, la presunta parte offesa si costituì parte civile. L’istruttoria è stata lunga ed esauriente, non trascurando alcun aspetto dell’enigmatica vicenda. Il dibattimento si è dipanato attraverso l’ascolto sul banco dei testimoni della stessa parte civile, ma anche di un Carabiniere che seguì le indagini. Furono inoltre acquisite anche le dichiarazioni di sommarie informazioni testimoniali rese dall’ex moglie dell’imputato, difeso dagli avvocati Rosalba Alassini e Paolo Rizzotto. C’erano dunque tutti gli elementi necessari per chiudere l’istruttoria dibattimentale e dare spazio alle arringhe finali.
E proprio durante la discussione conclusiva l’avvocato Rizzotto articolò la linea difensiva evidenziando l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dall’ex moglie: dalla testimonianza del Carabiniere emerse infatti che proprio lei risultava l’intestataria del numero telefonico. Inoltre, la voce che al telefono molestava e minacciava C.P. era certamente una voce maschile, tuttavia la parte civile non la riconobbe come quella dell’imputato. Anzi, la stessa parte offesa spiegò di non avere motivi di attrito personale con R.G., e dunque di non sapersi spiegare il motivo di queste minacce che comunque provenivano da quell’utenza telefonica.
In particolare, la difesa ha evidenziato l’ambiguità della posizione dell’ex moglie dell’imputato: ella infatti in qualche modo avrebbe potuto indurre qualcuno ad agire usando la propria utenza telefonica per lanciare le minacce, e poi far cadere l’accusa sulle spalle dell’ex marito, cosa che poi è effettivamente avvenuta. Il motivo scatenante potrebbe essere individuato nel contenzioso civile nato dopo il divorzio tra i due ex coniugi. Secondo la donna, R.G. non avrebbe pagato quanto fu stabilito dalla sentenza che decretò il divorzio: di qui il risentimento verso di lui. Un’altra circostanza fondamentale sulla quale si è articolata la difesa è la mancanza di prove circa il fatto che qualcuno avesse effettivamente pronunciato quelle parole di minaccia: manca infatti qualsiasi registrazione telefonica delle conversazioni in cui C.P. sarebbe stato bersaglio degli improperi minatori. L’unica prova era dunque data dal fatto che alcune telefonate erano partite dall’utenza di un cellulare intestato all’ex moglie di R.G., ma nient’altro in concreto era emerso. Sulla base di tale assenza di prove gli avvocati della difesa hanno chiesto l’assoluzione dell’imputato dalla doppia accusa di minacce e molestie, quanto meno ai sensi dell’articolo 530 secondo comma, visto che per R.G. non sussisteva alcuna evidenza probatoria in relazione ai fatti contestati.
Va inoltre considerato che il reato di molestie telefoniche previsto dall’articolo 660 del codice penale si era già prescritto, ma il giudice è andato oltre la prescrizione, e ha assolto nel merito l’imputato anche per questo capo d’accusa. Doppia soddisfazione dunque per la difesa, che è riuscita a far crollare integralmente l’impianto accusatorio, vedendo riconosciuta l’innocenza del proprio assistito. Fra l’altro la pubblica accusa, oltre a chiedere la prescrizione per il reato di molestie, aveva invocato la “particolare tenuità del fatto” in relazione al reato di minacce. Ma tale richiesta, se accolta dal giudice, avrebbe consentito alla parte civile di agire in sede civile per ottenere un risarcimento, in quanto sarebbe comunque stata riconosciuta la responsabilità dell’imputato in relazione ai fatti, cosa che invece il Tribunale ha completamente escluso. Sotto questo profilo, dunque, l’assoluzione assume ulteriore importanza.