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L’ex carcere riapre ai procidani, la storia di palazzo D’Avalos ritorna protagonista

di Isabella Puca

foto Enzo Rando

Procida – Ci sono dei luoghi le cui mura, immerse nel silenzio, raccontano una storia fatta di volti e di mani che lavorano, di tempi ormai andati che hanno caratterizzato per lungo tempo la vocazione di un’isola come Procida. La storia di Palazzo D’Avalos, ex carcere di Procida, torna a rivivere grazie all’amministrazione guidata dal sindaco Ambrosino e alle tante associazioni dell’isola che, per i prossimi mesi, accoglieranno chiunque vorrà conoscere la storia di quella dimora signorile del’ 500 adibita, poi, a carcere. Martedì scorso l’apertura ufficiale di questo bene in una visita guidata insieme al professor Di Liello; nonostante la pioggia erano in tantissimi i procidani che hanno ripercorso le celle di quel carcere ormai chiuso, ma che conserva la memoria di chi vi fu rinchiuso, tra le giacche e le scarpe impolverate e accatastate nelle celle insieme a vecchie brandine arrugginite.  «Vi ringrazio per la vostra presenza – ha detto all’inizio della visita il sindaco Ambrosino – abbiamo investito una piccola somma nella messa in sicurezza del percorso, assai lontana dalla cifra che servirà per la messa in sicurezza dell’intero complesso, ma ci abbiamo tenuto. Ringrazio l’assessore Antonio Carannante; questo piccolo investimento ci dà la possibilità di ritornare a questo luogo e riappropriarcene. L’augurio è che la comunità senta la struttura come propria». Da adesso, infatti, l’ex carcere di Terra Murata è aperto a chiunque volesse visitarlo; con un piccolo contributo e una prenotazione online sul sito del comune di Procida, sarà possibile lasciarsi immergere nella suggestione di un luogo ricco di storia e di storie. A raccontarne le peculiarità, partendo dall’architettura, che nel corso dei secoli ha modificato la destinazione d’uso di quel palazzo cinquecentesco, è stato il professor Di Liello: «simbolicamente noi procidani entriamo in questo luogo così importante per la storia dell’isola, guardando alla sua storia, la sua architettura e cercando di delineare gli scenari futuri di questo bene. Guidare i procidani in questa visita ha per me un significato ampio, entrare in questo edificio significa iniziare un percorso di conoscenza e condivisione». La sua presenza sovrasta l’intera isola di Procida eppure molti isolani si soffermano su quella che è la storia più  recente che vede quella cittadella come luogo in cui espiare le proprie colpe tra le sbarre. Eppure il palazzo D’Avalos ha vissuto tre momenti storici ben precisi che iniziano nel ‘500 e percorrono tutto il ‘700 fino ad arrivare a tempi più recenti. Quella dei D’Avalos era una famiglia feudataria, la più influente dopo i Cossa e i Da Procida. Nel 1529 erano i feudatari dell’isola e fu Innico D’Avalos a pianificare l’apertura di questa struttura che rappresentava un vero e proprio pezzo di città. Era difesa, infatti, da un fossato, rappresentato oggi dalla piazza e, aveva un approdo sotto la spiaggia dell’asino. La toponomastica medievale ci racconta il rapporto con la cittadella; non c’era ancora il palazzo d’Avalos, ma il palazzo baronale, l’attuale conservatorio delle orfane, abitato dai Da Procida. Si decise così di costruire un palazzo fuori dal circuito medievale ribaltando la direttrice di sviluppo della cittadella orientata, adesso, sul fianco della collina. Il fossato fu eliminato e venne costruita la piazza e un nuovo circuito difensivo di mura; Terra Casata si trasforma così in Terra Murata. Siamo negli ultimi decenni del ‘500 e l’incarico progettuale fu dato agli architetti Tortelli e a Gianbattista Cavagna; probabilmente fu quest’ultimo a portare avanti l’intero progetto. Si iniziarono a creare così le premesse dello sviluppo della Corricella a Sud e di Sancio Cattolico a nord due borghi in espansione che iniziarono così a definirsi nel ‘600 periodo in cui la città iniziò ad aprirsi al territorio. Dall’esterno il palazzo doveva dare l’idea di una fortezza, all’interno si trasformava in una dimora gentilizia su quattro livelli; il piano nobiliare era a livello del cortile. Ancora oggi, nonostante le varie trasformazioni subite, la struttura cinquecentesca è tutt’ora presente, come le arcate sui lati, originariamente libere e una facciata su doppio loggiato aperto.

Dall’esterno continuava ad apparire come una fortificazione dal quale però si godeva un fantastico panorama. Con il cambio degli scenari del Regno, cambia anche la destinazione di Palazzo D’Avalos. Con l’arrivo dei Borbone Napoli diventa capitale di un regno autonomo e la caccia diventa attività principale del sovrano che si esercitava così nell’arte della guerra. Grandi territori vennero destinati a riserve di caccia e tra questi viene annoverata anche l’isola di Procida, primo sito reale di caccia. Palazzo D’Avalos diviene così oggetto di un nuovo progetto di restauro che però non fu mai terminato. Lì dove vennero costruite in tempi più recenti le celle di rigore vi era un’area dalla quale il sovrano, solo affacciandosi, poteva cacciare i fagiani. «Oggi – ha spiegato il professor Di Liello – entriamo e cerchiamo i segni tangibili del carcere, ma quella è solo la fase più vicina a noi; sarebbe bello valorizzare questo luogo che è un documento di architettura non presente a Procida». Il progetto settecentesco trasforma nuovamente la dimora D’Avalos, all’esterno si realizza però ben poco, andando a enfatizzare i caratteri cinquecenteschi. Con l’inizio del decennio di dominazione francese tutto questo patrimonio architettonico viene acquisito dai napoleonici che, nel 1811, andranno a destinare parte delle strutture a scuola militare; fu allora che si iniziò a parlare di un carcere.  Nel 1831 la storia di quest’edificio riparte nuovamente, i grandi saloni signorili furono suddivisi in tante celle, lasciando della struttura originaria solo le volte a crociera sul soffitto e alcuni elementi in piperno. Si pensò addirittura di creare sulla bella Procida un gran carcere, un progetto del 1845 avrebbe voluto far diventare tutta la cittadella un unico grande carcere, ma per fortuna i procidani si ribellarono aspramente stroncando sul nascere l’idea. Ancora nel 1855 i Gesuiti programmano la costruzione del grande opificio dando la definitiva destinazione produttiva dello spazio ai piedi delle mura cinquecentesche. Si iniziò a far lavorare i reclusi del carcere di Procida e tutta la piazza d’armi divenne un’enorme distesa di canapa. Passeggiando lungo tutto il percorso messo in sicurezza dall’Amministrazione l’impatto emotivo è davvero forte. In alcune delle celle sono accatastate giacche e scarpe impolverate, abbandonate lì dagli ultimi reclusi. Alcuni giornali datati 1987 riportano in prima pagina la notizia di una bomba di fango in Valtellina e su di un armadietto in ferro arrugginito, è possibile sfogliare un libro di cassa per le case di reclusione dove però non vi è scritto alcun nome. In un angolo sono accatastati, accanto a una brandina, delle matasse di canapa, poco più in là una Necchi, una vecchia macchina da cucire che da sola contribuisce a raccontare un altro pezzo di storia. La luce filtra tra gli archi del piano superiore, s’intravede il panorama sul mare immenso di Procida e si può solo immaginare quanto doveva essere più dura la pena dinanzi a uno spettacolo così. In un altro stanzone l’ultima meraviglia è quella dell’installazione di arte contemporanea di Alfredo Pirri, un’opera chiamata 7.0 perché inaugurata alle 7 del mattino. Si tratta di due lastre di vetro con al centro alcune piume d’uccello, un segno di rinascita da leggere durante il primo raggio di sole del giorno che, riflettendo sul vetro dal mare, inizia a brillare; una scintilla simbolica in quella che dovrà essere una complessa opera di restauro.

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